Gustoso frutto della fine del vincolo dei diritti d’autore, la versione a fumetti de “La luna e i falò” di Cesare Pavese, scritta da Marino Magliani e disegnata da Marco D’Aponte, è un volume raffinato, un esperimento ben riuscito. Riuscendo a incarnare il mito delle colline, dei falò e delle feste estive, ma anche del sangue e dei troppi morti che la terra nasconde. L’adattamento su tavole, poi, aggiunge alla vicenda di Anguilla una metanarrazione…
Il 2020 e il 2021, anni che ricorderemo per ben altri motivi, ma anche una coppia di numeri che segna i 70 anni dalla morte di Cesare Pavese e la conseguente fine del vincolo dei diritti d’autore. Pavese, insomma, è ormai un autore libero, e non si contano le ristampe e riedizioni delle sue opere. Tra queste, degna di nota è l’edizione molto particolare del romanzo più noto di Pavese, La luna e i falò (152 pagine, 19,90 euro), targata Tunué. Si tratta infatti di una trasposizione da romanzo a fumetto, un’interessante traduzione tra linguaggi narrativi in cui matite e colori di Marco D’Aponte hanno incontrato il sostegno letterario di Marino Magliani. Il volume è prezioso per la raffinata copertina e le tavole, una più bella dell’altra, ed è introdotto da un testo di Marta Barone (del suo esordio, Città sommersa, abbiamo scritto qui e qui; i suoi consigli di lettura in questo video per il nostro canale Youtube) che guida la lettura ricucendo le vicende note ai più del romanzo con l’epilogo della storia di vita e scrittura di Pavese. Un esperimento davvero ben riuscito attraverso il quale il fumetto accoglie e restituisce la potenza delle parole di Pavese, riportando dentro una storia classica nel suo senso calviniano: “un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”.
“È tutto lo stesso e quel tempo è passato”
Anguilla, Nuto, Cinto: il protagonista, l’amico di una vita, il ragazzino che evoca malinconicamente l’infanzia ormai perduta. Ci sono tutti i personaggi cardine di La luna e i falò anche in questa versione che con la potenza del linguaggio visivo costruisce volti e paesaggi all’ultimo romanzo di Pavese che già ben descriveva Arcangela Saverino in una recensione dedicata a La luna e i falò apparsa su Lucialibri.
Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
È tutta qui la contraddizione che anima la ricerca di Pavese e segna il ritorno di Anguilla nelle Langhe: ha il sapore di un nostos che non ha alcun obiettivo se non quello di interrogarsi. Anguilla, orfano e dunque privo di radici, sente un attaccamento a quella terra che, dopo l’esperienza in America, lo riporta nei luoghi di un’infanzia che cerca di rivedere. «Più le cose sono le stesse di una volta più mi fanno piacere», ammetterà davanti all’amico Nuto, lo stesso che gli ricorderà l’asprezza di una vita fatta di privazioni e miseria, di destini già segnati e orizzonti limitati.
L’allontanamento che coinvolge Anguilla e che lo strappa alle radici, all’infanzia felice incarnata da Cinto, è tuttavia il presupposto per il nostos che questa storia rappresenta: il ritorno sulle colline, quelle dei falò, delle feste estive, ma anche quelle del sangue e dei troppi morti che la terra nasconde. Si alimenta in questo scarto il mito che identifica con chiarezza Marta Barone nella sua introduzione. È il mito delle colline, il cuore nostalgico della ricerca pavesiana in cui sembra di scorgere l’ombra dell’analogo percorso di Magliani tra Olanda e terra aspra del ponente ligure a cui tornare sempre. Un luogo da eleggere a mito, la meta di un perenne nostos dello sguardo e dell’anima, probabilmente.
La storia nella storia
Incardinata nella contraddizione del ritorno che ne fa la costola, questa storia riadattata a graphic novel aggiunge alla vicenda di Anguilla una storia nella storia. La metanarrazione si incastra come bianco e nero che segna il passaggio all’attualità fuori dalla narrazione tra il racconto del presente e il passato fatto di capitoli che tornano indietro prima nell’infanzia di Anguilla, dove tutto, nonostante la durezza, era desiderio, e poi nella vita oltreoceano, l’America in cui imparare a stare al mondo.
Incontriamo così Pinolo Scaglione, diventato Nuto nel racconto, l’amico cui Pavese aveva chiesto racconti e dettagli sulla vita di Santo Stefano Belbo e i suoi abitanti proprio per costruire il romanzo. E torniamo a Torino in quel terribile agosto del 1950 in cui l’autore, salutata la sorella a cui aveva chiesto di preparare una piccola borsa da viaggio, prenoterà una stanza all’Hotel Roma per non uscirne più vivo.
Come rileva ancora Marta Barone nell’introduzione, una vena rossa attraversa tutta la storia: è quella del colore, che accende le tavole, ma anche quella del sangue e del fuoco, temi ricorrenti. La stessa che, non a caso al centro della storia, con le sembianze di una fetta di luna color rosso insanguina il cielo d’America riportando Anguilla alla luna dei ricordi, quelli delle feste estive e dei falò per propiziare la terra. La luce rossa di fiamme che bruciano non più per celebrare la festa ma per accompagnare angoscia, disperazione, morte.
A ritroso nella poetica di Pavese
II ritorno alle origini è lo snodo centrale del discorso nel folgorante e struggente romanzo di Cesare Pavese, il suo forse più famoso, entrato ormai nel canone scolastico e raccoglitore dei tanti temi lavorati nel corso di tutta la produzione dell’autore. Quasi un unico rovello su cui tornare e tornare, per dissipare quel grumo che dava carburante alla scrittura, alla ricerca indefessa di un’identità stretta nella morsa delle tante dicotomie. La dedizione alla scrittura e la vita nella natura, la campagna e la città, l’America verso cui viaggiare, almeno idealmente, e il ritorno alle radici nelle Langhe.
Sono i grandi, classici motivi di Pavese: definiscono la sua poetica e, in un intreccio indissolubile, anche la sua persona, il tragico esito di una vita in un hotel di Torino un giorno di fine agosto del 1950. Trascorsi settant’anni dal suicidio dello scrittore, è tempo di finirla con i pettegolezzi, come avrebbe voluto lui, e perdonarlo, come invitava a fare Pierluigi Vaccaneo nel suo A Torino con Cesare Pavese. È tempo di dedicarsi alla riscoperta della sua scrittura e dei suoi capolavori, come spinge a fare il mondo colorato di D’Aponte e Magliani.
Una graphic novel che, non a caso, si apre con una dedica e con un’immagine di movimento. La dedica è rivolta «agli abitanti delle colline, a chi le ama», il movimento è garantito da un treno, quello che, in bianco e nero, sorprende il personaggio di Pavese in viaggio verso i suoi luoghi d’infanzia, quelli del mito, quelli del ritorno, quelli dove spingersi a indagare ancora una volta attraverso la scrittura.
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Grazie a LuciaLibri e a Alessandra Chiappori, una lettura molto bella e precisa.
grazie a te e congratulazioni