“La sartoria di via Chiatamone” è il pregevole debutto di Marinella Savino, che si regge tutto su un grandissimo personaggio, Carolina Esposito, di professione sarta. È lei, prima e durante la seconda guerra mondiale a Napoli, a fare da scudo alla sua famiglia e non solo. la sua ossessione? Stipare la cantina di cibo, antidoto alla disperazione
Napoletana che vive a Roma, Marinella Savino è tornata con la mente e con la scrittura nella città natale per il suo romanzo d’esordio. E ha scelto una madre coraggio intraprendente, una semplice cucitrice che si trasforma in sarta di grido, una donna che molto lucidamente vede e capisce quel che altri nemmeno vagamente intuiscono, e che in guerra battaglia senza tregua per la salvaguardia dei cari, il marito Arturo («l’opposto di Carolina. Un metro e ottanta di buone maniere e cultura»), i figli e anche altri che magari sono rimasti senza casa, le cui abitazioni sono divenute macerie per le bombe: le famiglie della sorella e di una grande amica troveranno riparo presso di lei. Carolina Esposito, questo il nome di un personaggio femminile che resta a lungo nella memoria, capisce tutto già nel corso della parata di Hitler, che arriva a Napoli nel 1938. Lentamente l’ossessione della donna diventa la cantina: stiparla di viveri, fare scorta per quando piomberanno addosso tempi di buio e povertà, diventa la sua missione, con la chiave della porta sempre al collo.
Resistenza al femminile e pennellate di dialetto
La sartoria di via Chiatamone (176 pagine, 16 euro) è una delle scommesse della casa editrice Nutrimenti, che ha puntato Marinella Savino, dopo la sua partecipazione al premio Calvino, storicamente una fucina di talenti. Ha creduto in una storia di grande tensione, di resistenza al femminile, talvolta anche di ironia, e in un congegno linguistico che non disdegna pennellate di dialetto (in certe espressioni, nei dialoghi, nella stessa sintassi italiana). La distruzione aleggia a lungo nella pagine del romanzo, ma l’amore per la sopravvvivenza e per la vita è sempre più forte di tutto, più della disperazione, più di tre anni di bombardamenti, del coprifuoco e delle tessere annonarie. «La dichiarazione di guerra al mondo – si legge – non la fece Hitler, invadendo la Polonia. La fece Carolina, quando si convinse che una guerra ci sarebbe stata e lei doveva attaccare prima ancora di tutti gli altri, per difendersi e difendere la sua famiglia».
La più bella tradizione partenopea
Fra incertezza e terrore la Donna Carulì di Marinella Savino potrebbe ricordare certe figure femminili della più bella tradizione partenopea. È un inno vivente alla libertà, più di mentale che di azione, ma tanto basta a renderla indomita e vincente. La sartoria di via Chiatamone sforna vestiti speciali per signore altolocate, anche per alcune che – in altri tempi, prima della guerra non si bada al sottile – non sarebbero state accontentate. Questo romanzo è una lettura preziosa, coinvolgente, a tratti commovente. Ci ricorda chi siamo stati, la differenza fra pavidi e coraggiosi, il genio femminile, e tutto quello che è antidoto alla disperazione.
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Libro carino e gradevole da leggere. Storia di Napoli drammatica , come al solito. Da napoletano quale sono, direi che forse, prima di cimentarsi nello scrivere in dialetto partenopeo,,avrebbe dovuto prendere qualche lezione di scrittura della.lingua napoletana, perché è scritto in modo pessimo e fastidioso. Forse, per chi è napoletano, può essere comprensibile, ma se qualcuno al di sopra di Roma prova a capirci qualcosa, fallirebbe miseramente, perché incomprensibile. A tratti non si capisce neanche cosa intenda, perché i termini sono stravolti e scritti come si pronuncia