Il sogno di un mondo nuovo, di una Sicilia appartenente a un’Italia libera e giusta, anima una coppia di coniugi di nobili natali che si unisce alla lotta per abbattere i Borbone. Racconta tutto questo Francesco d’Ayala in “Romanzo per due rivoluzioni”, attingendo alle memorie familiari. Volume godibile, compatto, ben orchestrato, inno al coraggio e alle decisioni controcorrente. Anche all’amara consapevolezza di riconoscere che quello per cui s’è combattuto non si è realizzato davvero…
Due aristocratici, una donna e un uomo, convertiti agli ideali del Risorgimento, due figure realmente esistite, protagonisti delle memorie familiari di un romanziere al primo fortunato tentativo, dopo alcune prove saggistiche. Francesco d’Ayala, palermitano di nobili avi, rievoca e romanza in modo audace e coinvolgente le avventure di due antenati che scelsero di stare dalla parte giusta della storia, contro i Borbone, in una Sicilia che meritava d’essere liberata da un giogo per tentare un’altra strada, quella dell’unità d’Italia. Oltre un secolo e mezzo dopo il dibattito storico potrà anche essere ancora aperto, ma chi diede una mano al Risorgimento fece comunque la scelta più difficile e ardita, tanto più provenendo dalla schiera delle famiglie di alto lignaggio. Giuseppe d’Ayala (1823-1898), detto Pepè, nato a Caltanissetta, era un patriota senza ambizioni di gloria, che rifiutò incarichi politici, qualsiasi sirena del potere, e che non aveva l’obiettivo di finire sulle pagine di storia, nonostante una lunghissima attività da filantropo condotta al fianco della moglie Giuseppina. C’è riuscito fin quando alcune ricerche d’archivio non hanno portato alla luce il suo testamento lungo trecento pagine, e di fatto la loro storia, accendendo una lampadina in uno dei discendenti, Francesco d’Ayala, autore per Blu Atlantide di Romanzo per due rivoluzioni (220 pagine, 18,50 euro). Libro che, capitolo dopo capitolo, racconta la sete di giustizia e di ideali del protagonista – fin da giovane indignato per la sorte dei carusi nelle miniere del Nisseno –
Tra Bixio, Crispi e Garibaldi
Giuseppina, agli ultimi mesi di gravidanza della loro primogenita, ascoltò il lungo racconto che lui le riportò quella sera stessa. La minuziosa descrizione della rivolta e dell’attimo di furia cieca sfociato nell’omicidio dell’artigliere napoletano non incontrarono il suo favore. «Sei un fesso Giuseppe, una testa calda. Ora dovremo vedercela con il tribunale e senza poter sperare in nessuna clemenza, dato che hai sparato a quel soldato davanti a centinaia di testimoni. Ma come ti è venuto in mente?», strillò, continuando a tenere la mano sulla vistosa pancia.
«Giuseppina, tu stessa hai fatto arrivare da Milano e dalla Francia quelle cronache sulle rivolte, sulla libertà, sull’idea che gli uomini non debbano più abbassare la testa di fronte a chicchessia solo perché padrone per censo. Non ti ricordi come ci entusiasmavano i libri sulla rivoluzione americana, il marchese La Fayette, la presa della Bastiglia del 14 luglio?».
Gli ideali rivoluzionari scorrono nelle vene dei coniugi protagonisti (in rotta di collisione con il conte Adonnino, padre di Giuseppina, fedele ai Borbone) e di tanti personaggi di questo primo romanzo di Francesco D’Ayala, da Nino Bixio (con cui Giuseppe ha un fitto rapporto epistolare) a Francesco Crispi, a sua moglie Rose Montmasson (la protagonista del bellissimo La ragazza di Marsiglia, scritto da Maria Attanasio e pubblicato da Sellerio), allo stesso Garibaldi, a cui Crispi presenterà Giuseppe d’Ayala così:
«Generale, questo è d’Ayala, il nostro uomo a Malta, un patriota della prima ora, dal 1848».
Storia e famiglia
Il volume di Francesco d’Ayala risulta più che godibile, compatto, ben orchestrato; è un inno al coraggio, al mettersi in gioco, alle decisioni controcorrente, al sogno di un mondo nuovo – chiaramente accanto agli idealisti fiorivano anche impostori, mercenari e lestofanti – libero e giusto. Allo spaccato storico affianca anche quello familiare, alle vittorie pubbliche di Giuseppe e Giuseppina accosta i dolori privati, a cominciare dalla morte di due figlie. L’epilogo si costruisce malinconicamente sull’uno e sull’altro fronte, quello privato e quello collettivo, tanto che nel finale Giuseppe D’Ayala si chiederà, indignato, se quel che avevano desiderato e provato a costruire era l’Italia che aveva di fronte, alle prese con l’emorragia dell’emigrazione, con l’aumento delle tasse, con il servizio militare triennale obbligatorio, con il chiodo fisso del colonialismo («Siamo stati per secoli servi di qualcuno e appena liberi che facciamo? Rendiamo servo qualcun altro. Non è giusto»), di un posto al sole in Africa.
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Micol, la tua recensione è una delle più belle ed esatte sul mio libro. Avrei piacere di parlarti, contattami su instagram così ti do il mio numero. Grazie di cuore ❤️
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