Il volume di Francesco d’Ayala risulta più che godibile, compatto, ben orchestrato; è un inno al coraggio, al mettersi in gioco, alle decisioni controcorrente, al sogno di un mondo nuovo – chiaramente accanto agli idealisti fiorivano anche impostori, mercenari e lestofanti – libero e giusto. Allo spaccato storico affianca anche quello familiare, alle vittorie pubbliche di Giuseppe e Giuseppina accosta i dolori privati, a cominciare dalla morte di due figlie. L’epilogo si costruisce malinconicamente sull’uno e sull’altro fronte, quello privato e quello collettivo, tanto che nel finale Giuseppe D’Ayala si chiederà, indignato, se quel che avevano desiderato e provato a costruire era l’Italia che aveva di fronte, alle prese con l’emorragia dell’emigrazione, con l’aumento delle tasse, con il servizio militare triennale obbligatorio, con il chiodo fisso del colonialismo («Siamo stati per secoli servi di qualcuno e appena liberi che facciamo? Rendiamo servo qualcun altro. Non è giusto»), di un posto al sole in Africa.