Una lingua poetica e sperimentale, che mima dolore e dubbi, in “Piatti rotti”, opera prima di valore di Esther Bondì, voce non contaminata, che fa i conti in modo spasmodico con i ricordi e con l’identità, con una madre gelida e gretta, con traslochi…
Anna aveva diciassette anni e moltissime vite da sprecare. Sarebbe toccato anche a lei, un giorno, sarebbe arrivato anche il suo, di momento, quella unica vita: la giusta, la vera, la sua. Nel frattempo, sprecava le vite al meglio degli altri.
Una scrittrice vera. Giovane, con alle spalle qualche racconto pubblicato on line, ma che arriva e piazza un bel debutto. Si chiama Esther Bondì e ha esordito con Piatti rotti (189 pagine, 17 euro), pubblicato da Giulio Perrone editore. Nata a Parma, allieva del laboratorio di narrativa minimumlab, dove ha lavorato con Graziano Gala (qui e qui abbiamo scritto di un paio di suoi titoli). Autrice di un libro tumultuoso e fresco nella lingua, nell’idea di struttura, di memorie in frantumi, come a pezzi è la vita della protagonista, Anna, fanciulla e poi in una famiglia complicata, che trova conforto e senso nella scrittura, nell’arte di scrivere racconti come quello che chiude il libro e che si chiama proprio Piatti rotti.
Via dei matti, numero zero
Esther Bondì – nata a Parma – fa ascoltare silenzi e storie alla sua Anna, storie che impara a memoria, in un contesto molto particolare, a un indirizzo, il suo, che è come quello di una nota filastrocca e canzone: via dei matti, numero zero. È un romanzo che fa i conti in modo spasmodico con l’identità e con il passato, con la solitudine e con frasi, situazioni, persone che a prima vista sono incomprensibili, instabili. La famiglia non è un porto sicuro, né il padre né la madre riescono a stare a galla, sono più presenti i nonni e gli assistenti sociali nelle vite di Anna e di sua sorella Sara, che poi fuggirà in Germania. Sono più i traslochi e i dolori che le gioie compiute, che le piccole gioie. Un insegnamento della madre a proposito della maternità?
Un essere nuovo significava: creare qualcuno a cui dare dolore, poi sensi di colpa, avere qualcuno da cui farsi salvare, e poi abbandonare.
E il discorso narrativo attorno al personaggio della madre non è mai meno che devastante, Franchini docet.
Madre non ha insegnato tacchi, unghie, cappotti, cappelli, studiare, a fare gli amici, a fare i biscotti, a leggere il giornale. Madre ha insegnato a odiare, a perdere tutto, a mistificare, madre ha insegnato a strisciare sui muri, a non farsi gli amici, a dire bugie…
Non dimenticare, non diventare adulti
C’è un pathos intenso e amaro, figlio di una scrittura originale, poetica, sperimentale, che mima il dolore e il dubbio, ci sono scorci narrativi e di prosa che non troverete in scrittori della stessa età di Esther Bondì; che poi probabilmente non è nemmeno una questione anagrafica, però si sente che siamo in presenza di una voce non contaminata, di uno sguardo sfocato e intessuto di domande senza risposta, che tornano periodicamente, di azioni non concluse, come dimenticare le perfide crepe dei ricordi o non essere in grado di diventare adulti.
Seguici su Instagram, Telegram, WhatsApp, Threads, YouTube Facebook e X. Grazie