Quello che poi sarebbe diventato il fondatore del Likud e il primo premier di destra di Israele, Menachem Begin, in gioventù aveva vissuto l’aberrante esperienza del gulag, tra sofferenze, vessazioni e torture. Scrisse “Prigioniero in Russia”, documento terribile e destabilizzante, molto in anticipo sui libri di Solženicyn. Un racconto di violenza, manipolazione e propaganda che rende terribilmente concreto quello che Orwell aveva immaginato qualche anno prima in “1984”
Comunque la si pensi politicamente, non si può non riconoscere l’importanza nella storia d’Israele di Menachem Begin, controverso primo vero leader della destra e fondatore del partito Likud, il cui leader da vent’anni è Netanyahu; già terrorista, Begin, fu poi premio Nobel per la pace, un riconoscimento condiviso col presidente egiziano Anwar al-Sādāt nel 1978. Era un discepolo del più discusso tra gli ispiratori dello stato d’Israele, morto prima di vedere realizzato quel sogno, Vladimir Jabotinsky, fondatore del sionisimo revisionista, uomo di idee tutt’altro che illuminate. Nato nella cittadina polacca di Brest Litovsk, in quello che nel 1913 era ancora l’impero russo, Menachem Begin, il cui nonno materno era un noto rabbino, già da ragazzo, in Polonia, faceva parte di un movimento giovanile sionista e da militare dell’esercito polacco finì in un campo staliniano in Siberia. Prima della nascita dello stato di Israele imperversò da comandante dell’organizzazione terroristica Irgùn Zwaì Leumì, con attentati antiinglesi e antiarabi, poi dopo circa tre decenni di attività parlamentare alla Knesset, vinse le elezioni da leader e divenne premier – mandando per la prima volta all’opposizione i laburisti – in sella per sei intensissimi anni, tra gli accordi di Camp David, l’invasione del Libano, la lotta mai doma contro la resistenza palestinese. Una figura carismatica, divisiva, dalle tante sfaccettature (sconfinata la sua ammirazione per Shakespeare e Garibaldi), che ha lasciato in eredità un libro fenomenale, duro, vero, che deve metterci in guardia dalle derive del mondo, anche di oggi.
La macchina concentrazionaria
Prima di trasferirsi in Palestina, la sua vita fu sconvolta almeno per due anni dall’esperienza del gulag, dove fu internato a partire dal 1940, perché «sionista ed elemento controrivoluzionario», accusato anche di collaborare con l’imperialismo britannico, condannato senza un regolare processo in quanto elemento pericoloso per la società. Quell’esperienza è un volume, scritto una decina d’anni dopo gli avvenimenti, grazie a una memoria prodigiosa, e adesso finalmente tradotto in italiano per la casa editrice Giuntina, grazie alla cura di Massimo Longo Adorno.
“La commissione esecutiva speciale del Commissariato del popolo agli affari interni ritiene che Menachem Wolfovitch Begin sia un elemento pericoloso per la società e ordina che venga internato in un campo correttivo di lavoro per otto anni”.
“Prego firmi” disse gentilmente il rappresentante della commissione esecutiva speciale.
“Questo è proprio un bel pesce d’aprile” dissi prendendo in mano la penna per firmare. L’uomo dell’NKVD mi guardò severamente ma non disse nulla. Firmai e venni riportato in cella.
Destabilizzante e commovente è questo tomo, Prigioniero in Russia (416 pagine, 24 euro), in cui l’autore non disdegna sprazzi di amara ironia, pur raccontando la deportazione, la vita ai limiti dell’umana resistenza, il fetore, la sofferenza, le temperature fino a 25 gradi sotto zero, le vessazioni, il terrore, i soprusi, gli interrogatori a ogni ora, spesso surreali, quando era tenuto forzatamente sveglio (White nights è il titolo dell’edizione inglese del libro), con un riflettore puntato sugli occhi, i lavori forzati per contribuire alla realizzazione della linea ferroviaria nel nord della Russia. Il comunismo nella sua realizzazione pratica, nella sua applicazione quotidiana, è nel mirino di Menachem Begin. Le aberrazioni della famigerata NKVD, polizia segreta del regime sovietico, e la macchina concentrazionaria sono raccontate attraverso una testimonianza lunga e sconcertante, molto in anticipo sulla pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovic di Aleksandr Solženicyn.
Spirito mai domo
È stato scritto che questo documento che è Prigioniero in Russia di Menachem Begin racconti molto di quello che Orwell, qualche anno prima, aveva raccontato del totalitarismo in 1984, la repressione della libertà, la manipolazione di fatti e parole, la propaganda incessante, la brutale violenza. E, come probabilmente riteneva anche Orwell, accosta i campi tedeschi a quelli russi, su entrambi i fronti gli aguzzini sono spietati e disumani e c’è un disegno complessivo di annientamento dei nemici, che per Hitler e Stalin coincidono, sono gli ebrei. Negli anni di detenzione, umiliazione e sottomissione, Begin ammetterà gran parte di quel che gli viene contestato, senza però considerare le accuse come reati o colpe. Dolori e fatiche senza soluzione di continuità non piegarono il suo spirito, considerando le pagine di storia che avrebbe scritto fino ai primi anni Ottanta. A salvarlo, in qualità di cittadino polacco, sarebbe sopraggiunto, nel settembre 1941, un accordo tra la Russia e il primo ministro della Polonia in esilio, il generale Władysław Sikorski, che prevedeva la liberazione dei prigionieri polacchi.
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