L’ossessiva e vorticosa sintassi di tipo bernhardiano o beckettiano, la destrutturazione degli stereotipati cliché della letteratura di consumo, un autore imprescindibile, tra i più rappresentativi del nostro tempo. Lo celebra il volume “Una (non) prospettiva, percorsi intorno all’opera di Vitaliano Trevisan”
In un contesto generale nel quale la letteratura sembra segnare il passo rispetto a altre forme artistiche o di comunicazione (così pare), viene da domandarsi quale possibilità di accoglienza e diffusione possa avere un testo di critica letteraria, domandandoci implicitamente a cosa serva la critica letteraria stessa, cioè una disciplina che alimenta costitutivamente una proliferazione di scritti su quella stessa letteratura che sembra segnare il passo (chissà se sia veramente così). Poi ci sono i grandi autori ovviamente, quelli che resisteranno alla prova del tempo e per i cui libri varrà il principio del tempo buon testimone e padre della verità, e quindi destinati a rimanere e essere tramandati, anche grazie alla mole di scritti che ci saranno su di loro e sulle loro opere. Uno di questi è Vitaliano Trevisan (1960-2022), lo scrittore (ma non solo) vicentino tragicamente e per sua mano scomparso tre anni fa, il quale a dispetto della recentissima scia lasciata dalla sua opera e del fatto dell’essere stato con la sua scrittura visceralmente immerso nella contemporaneità può già vantare una considerevole mole di approfondimenti critici e studi, un autore imprescindibile nel dibattito letterario contemporaneo e già canonizzato come tra i più rappresentativi del nostro tempo. Testimonianza ne è il volume da poco uscito per Mimesis edizioni dal titolo Una (non) prospettiva, percorsi intorno all’opera di Vitaliano Trevisan (278 pagine, 24 euro), a cura di Alvaro Barbieri e Matteo Giancotti (pagg. 278, euro 24,00), ad oggi il più completo strumento critico disponibile per avvicinarsi all’autore di Works (qui l’articolo), tra gli altri, una sorta di resoconto (parola che forse anche lo spigoloso Trevisan avrebbe apprezzato) e risultato degli atti congressuali delle due giornate a lui interamente dedicate e organizzate dall’Università di Padova e dall’Accademia Olimpica di Vicenza nel 2023, il video del convegno si può reperire online.
Accostarlo a Pasolini
Forse questo sarà solo un assaggio di studi destinati a aumentare nel tempo si suppone (e ci si augura), per un autore da considerare uno dei più grandi della generazione a cavallo tra i due millenni nel nostro panorama letterario, senza il rischio di spingerci troppo oltre assimilabile al Pier Paolo Pasolini di qualche decennio precedente per l’acutezza del suo sguardo, uno dei più attenti prosatori “politici” del nostro tempo, al pari appunto dell’intellettuale friulano, infatti amato e spesso citato nelle sue opere da Trevisan, il Pasolini degli Scritti corsari e delle Lettere luterane, della feroce critica alla società dei consumi, quello della sparizione delle lucciole e della denuncia del traumatico passaggio da una società contadina a una industriale, ma anche quello più intimista che focalizza la sua scrittura nel rapporto con la madre, assimilabile al Trevisan più poetico e dolente avvinghiato geneticamente a quella sensazione di “sentirsi abbandonato dalla nascita”, sintomo o effetto (o uno degli effetti) di quella malattia che lo accompagnerà per tutta la sua esistenza e che lo porterà alla decisione estrema per la quale scriverà nel suo biglietto di addio: “Nessuno deve sentirsi responsabile perché nessuno avrebbe potuto fare nulla”. Da citare in tal senso all’interno del volume il bellissimo saggio sulle madri dal titolo Scrivere un saggio sulle madri di Gilda Policastro, la quale si concentra su stile e contenuti della scrittura di Vitaliano Trevisan attingendo per lo più al postumo Black Tulips con accostamenti più che cogenti e di grande fascino tra lo scrittore vicentino e appunto il Pier Paolo Pasolini sia “politico” che “privato”.
Diversi punti di vista
Al di là della spigolosità dell’uomo e scrittore che è stato Vitaliano Trevisan, della caustica e spesso invettivale critica del contemporaneo e della sfortunatamente tragica scomparsa, ci si augura che il tempo gli renderà giustizia (e in parte lo sta già facendo), soprattutto per la sua del tutto originale e particolare poetica (che è quello che rimane), e il volume edito da Mimesis grazie agli analitici e dettagliati interventi dei relatori, in molti casi “trevisaniani militanti” nel senso che già si sono occupati a fondo della sua opera, in altri casi scrittori di occasione sul compianto autore vicentino che viene affrontato da diversi “punti vista” (il nome della collana che ospita il volume), e alla qualità dei contributi e al merito dei suoi curatori, riesce a mettere al meglio in luce la statura letteraria di uno scrittore del quale spesso si è più parlato che averlo capito e per il quale un tale tipo di approfondimento può costituire quindi un utile e indispensabile viatico alla scoperta della sua opera. La tinteggiatura per molti versi accademica e specialistica del libro di Mimesis, ricco di approfondite analisi filologiche sui testi, sulla loro forma, stile e contenuti sviscerati in molti suoi aspetti, lungi da costituire un limite alla sua fruizione deve essere invece considerata il suo punto di forza.
Il volume si sviluppa per alcune grandi aree tematiche che rispecchiano i diversi approcci all’opera di Vitaliano Trevisan in merito a vari punti cardine della sua scrittura: dal punto di vista autoriale e della caratterizzazione dell’io narrante, quindi con un’approfondita attenzione agli aspetti narratologici nelle varie opere come con i testi di Fabio Magro e Francesco Brancati, al rapporto con la lingua e la società, alla domanda sulla catalogazione delle opere stesse di Trevisan in un genere, meglio dire generi nella fattispecie, con la domanda in sé su cos’è un romanzo e su quale forza possa ancora avere nel raccontare la realtà, visto che i suoi testi possono essere definiti con un termine fin troppo abusato degli “ibridi”, fino ai contributi di Trevisan al teatro e al cinema e alle implicazioni dei suoi scritti riguardo al territorio e al paesaggio postmoderno e alla sua del tutto particolare prospettiva architettonica di disegnatore di quei territori e paesaggi in quel mitizzato Nord-Est che lo ha ospitato.
L’alterità dello sguardo e della conoscenza
Sulla stessa prospettiva di cui al titolo, anzi sulla (non) prospettiva, tema cardine della poetica di Vitaliano Trevisan, che quindi come campo d’indagine riveste un ruolo primario in tutta la sua opera, è centrato l’intervento di Luca Illetterati (Camminare sul limite) come anche quello di apertura di Emanuele Zinato il quale mette in evidenza l’ambivalenza tra esserci in quel mondo e in quella visione prospettica e rifiutarla. La prospettiva, visione prospettica o griglia prospettica che segue le logiche del mercato è stata introiettata nei nostri circuiti fin dalla nascita, “imposta dall’esterno, dall’alto, da remoto” (scrive Trevisan in Black Tulips), atta alla neutralizzazione della dimensione della libertà e quindi a uniformare gli individui in dei consumatori. Lo stesso approccio interpretativo che si trova nell’intervento di Andrea Cortellessa, tipicamente immaginifico, ricchissimo di riferimenti intertestuali, quindi eruditissimo, raffinato e illuminante come ci ha abituati una delle maggiori voci della critica letteraria nostrana in circolazione, occupandosi nella fattispecie di Vitaliano Trevisan, un autore frequentato in sede critica in modo molto diretto dallo stesso Cortellessa, il quale nel suo testo si concentra sulle aberrazioni della prospettiva, cioè su quelli scarti liminali rispetto alle proiezioni d’insieme della vulgata ideologica, produttiva e mercantilistica, i soli che permettono nella poetica di Trevisan la lettura del tempo e dello spazio frammentato nel quale viviamo. L’unica prospettiva possibile è quella letteraria, non in senso esistenziale né tantomeno di riscatto sociale, perché l’unico smacco temporale e spaziale alla ferita del vivere nel mondo è l’alterità dello sguardo e della conoscenza che trova la plastica rappresentazione nel libro, nei libri, la mimesis letteraria, come testimonia Thomas, il protagonista, alter-ego del suo autore della cosiddetta trilogia eponima che comprende Un Mondo meraviglioso: uno standard, I quindicimila passi, un resoconto e Il ponte, un crollo, ora riunita in un unico volume (Einaudi 2024).
Rifiutare il luogo a cui si appartiene
D’altronde per non sentircisi nel mondo bisogna esserci in quel mondo. Trevisan lo dice chiaramente nelle sue opere, asserendo che si può rifiutare solo il luogo a cui si appartiene, parlando della sua città, Vicenza, come esplica in modo dirompente in Tristissimi giardini: “La mia città che non è mai stata la mia” aggiungendo: “La mia terra, la mia lingua, la mia cultura, niente di tutto questo è mai stato mio, eppure è da lì che vengo, e lì sono condannato a tornare”, un senso di spaesamento e di non appartenenza che pervade tutta l’opera e il pensiero di Trevisan e che ne fa un acre, acutissimo e spigoloso polemista e critico del contemporaneo e dell’esistente, un’ambivalenza teorica, concettuale e formale che si dipana lungo tutti i suoi scritti caratterizzati costantemente dalla tragica (nel senso più ampiamente greco del termine… per quanto questo significhi) contraddizione (ambivalenza) tra appartenenza e rifiuto, negazione dell’io, con le conseguenti implicazioni narratologiche come messo bene in evidenza dall’intervento di Illetterati, il quale sottolinea la costante e duplice tensione tra prospettiva e non prospettiva, tra io e non io e la crisi e messa in discussione quindi del concetto di identità in un modo che ricorda molto Samuel Beckett, non a caso uno dei “numi tutelari” di Trevisan. Una scrittura regressiva, narcisistica se pensata nel senso di autobiografia tout court, un genere che il Novecento, secolo della dissoluzione dello stesso concetto di identità ha messo paradossalmente in maggior risalto (gli esempi sarebbero innumerevoli). Dicotomia e ambivalenza tra identità e non identità, paesaggio scomparso nella periferia diffusa post-moderna altamente antropizzata (come il Veneto di Vitaliano Trevisan, un’immagine che è resa molto bene nei brani sulle passeggiate del protagonista nel bosco di roveri in I Quindicimila passi), nel tempo e nello spazio dove anche il sottrarsi si configura come una sequenza di tentativi abortiti (la mancanza di prospettiva). In Standards scriverà: “Studiavo Beckett per fuggire la realtà e Beckett mi ricacciava di nuovo, e bene in fondo, in quella stessa realtà che cercavo di fuggire”. Una dicotomia tipicamente beckettiana che Trevisan ha fatto propria e che giustifica il fascino dei suoi scritti e la loro ambivalenza che questo convegno di studi dal quale è scaturito il volume mette bene in luce.
L’auscultazione di sé
Molta (doverosamente) è l’attenzione riservata all’interno del volume e le citazioni in merito a Works, l’ultima opera edita in vita di Trevisan, definito anche post-romanzo o ultra-romanzo, sicuramente uno dei più importanti degli ultimi anni, un’opera nella quale l’auscultazione di sé dialoga con il testo mettendo in risalto meglio che altrove quella dimensione autoriale che fa della sua intera opera un originale connubio di confessione intima e privata (nonché dolorosa) nella più consolidata tradizione dell’autofiction e della più attenta e pervasiva scrittura saggistica, con l’illuminante e disincantata visione sul postmoderno. Quasi interamente dedicato a Works è sia lo scritto di Lorenzo Renzi titolato Il succo e la scorza inserito all’interno del volume nella macrocategoria dedicata a Lingua, psiche e società, sia nello stesso apparato quello di Chiara Volpato, la psicologa veneta che nel suo intervento si concentra sul rapporto tra psicologia sociale e letteratura, il lavoro che è indagato sotto vari aspetti mettendone in luce in modo originale e rivelatorio le implicazioni psicologiche individuali e sociali allo stesso tempo, da parte di un autore che vale ricordarlo passa in rassegna come da sua esperienza diretta oltre trenta occupazioni diverse, una narrazione e un’indagine introspettiva e allo stesso tempo un grande affresco dall’interno, un’esperienza individuale e collettiva che avvicina la sua opera estrema e forse più completa (capodopera verrà definita) a un grande affresco e un viaggio che è “esplorazione di quelle zone di resistenza all’evidenza” (da Tristissimi giardini), fino a farne oltre che un’intima confessione anche un vero e proprio trattato sociologico dei nostri giorni.
Feroci invettive e senso di pietas
Un rapporto con il lavoro e i “lavori” quello di Vitaliano Trevisan segnato dallo stesso concetto di ambivalenza come viene evidenziato in queste note critiche che mettono in risalto la vena polemista di un autore nel quale agiscono campi di forze contrastanti, quelle delle feroci invettive sul pensiero dominante e l’esistente ma anche quelle che testimoniano un senso di pietas verso i propri simili (nella fattispecie il proletariato postmoderno del mitizzato Nord-Est) e indicano un bisogno tanto acuto quanto negato di ascolto e con esso la ricerca di persuasione che in fondo non è che una delle armi retoriche più dirompenti in qualsiasi avventura letteraria. Una critica e allo stesso tempo una dedizione al lavoro come categoria dell’esistente per quanto questo venga percepito nel suo grado di alienazione e di vera e propria religione laica delle terre di provenienza dell’autore, ma anche e forse proprio in tal senso affrontato con il massimo impegno come in Works traspare a più riprese, con la volontà di svolgerlo al meglio e con perizia artigianale quando realizza che sia organizzato male, una dedizione ai “lavori” che è traslata nella sua vocazione letteraria come mette apoditticamente in risalto il suo stesso Works, se non la sua opera più importante sicuramente la più significativa, il cui titolo gioca con i lavori da lui stesso svolti e con il “lavoro letterario” al quale si consegnerà come ineluttabile destino. Un’indagine svolta dall’interno, in ossequio all’impostazione autofinzionale, con lo stesso lo sguardo da entomologo del postumo Black Tulips, nel quale l’autore-protagonista narra della tratta delle prostitute nigeriane e lo fa seguendo l’indicazione di una di loro. “U must c with your own eyes” facendolo “dall’interno”, fino al cuore della tratta, in Nigeria e a Benin City. Black Tulips, romanzo del tutto sui generis tanto da dover dubitare nel poterlo definire tale, fatto di frammenti, tessere nelle quali l’io narrante è un po’ l’autore e un po’ no, nel quale la Nigeria è anche un po’ il Veneto, romanzo non incompiuto ma interrotto come viene significativamente scritto in più di una nota critica. In questa opera scandagliata variamente all’interno del volume di Mimesis si alternano la prima e la terza persona, segnalando una mai definitiva e possibile scelta sul punto di vista (così fondamentale in ogni opera letteraria), concetto espresso nell’esergo dello stesso volume postumo: “Un fatto della nostra vita non vale perché è vero, ma per il significato che viene ad assumere. (da Conversazione con Goethe di J.P. Eckermann), e segnatamente nei brevi capitoli dai titoli Avvertenze, interpolazioni, franti, avvisi ai naviganti. Una curiosa e degna di riflessione sottolineatura dell’importanza del punto di vista, della “prospettiva” per uno che tiene a ribadire non averne: “Non sono riuscito a vedere me stesso nel futuro, per esempio” “non sono mai stato in grado di pensare in prospettiva, come si dice né verso il futuro né verso il passato e meno ancora sono stato (e sono) in grado di pensare me stesso in prospettiva”, quando in realtà come in I quindicimila passi la spiegazione o scioglimento degli eventi fino a allora narrati si ha nel finale, come accade anche in Il ponte, nei quali la conclusione disvela la stessa cogenza di quella storia il cui risultato è appunto il racconto della storia sottoforma dello scritto di cui l’autore mimetizzatovi dentro ne giustifica il titolo, complesse e ingegnose architetture letterarie e metanarrative che nella frammentarietà (uno dei topos della scrittura di Trevisan) vanno a costruire un quadro di insieme che va di pari passo con la supposta vicenda biografica.
Un’antiepica del lavoro
Se ce ne fosse stato bisogno l’estrema prova letteraria di Vitaliano Trevisan mostra ancor maggiormente la sua completa insofferenza e avversione per la scrittura di trama e per la forma romanzo in quanto genere, relegato a comune oggetto di consumo, i cosiddetti “page turning”, volumi come veri e propri format per i quali il lettore aspira solo a girare pagina dopo pagina assimilando narrazioni di solo intrattenimento come una qualsiasi merce, che niente lascia alla riflessione e allo scandaglio del reale, complesso, ipertrofico e vorticoso come invece l’ossessivo “monologo esteriore” (bellissima espressione adottata da uno dei critici in sede) mostra, una scrittura toto genere diversa dagli stereotipati prodotti in serie dell’uniformato mercato editoriale e industria culturale, una critica quindi verso quel mondo del lavoro, dopo gli innumerevoli “lavori” che all’età di quarantadue anni lo ha adottato tra le sue file, quello di scrittore verso il quale in bellissime di pagine di Works confessa il suo pregresso orizzonte di riferimento in qualche modo salvifico, sebbene la sua complessiva e definitiva visione su di esso sia quella di un’ideologia del lavoro non-realizzante, l’ambivalenza (ancora lei) del credere nel lavoro letterario come riscatto esistenziale in una terra non plus ultra e immagine di quel capitalismo avanzato (qualsiasi cosa questo termine significhi o il senso che vogliamo attribuirne), il “suo” Veneto a cavallo tra i due millenni, lavoro nelle sue varie declinazioni da lui aborrito e denunciato e verso il quale lancia i suoi strali come fa verso una società e il suo destino, riconoscendo in esso il senso di un fallimento collettivo e individuale, quasi preconizzando il suo di destino. La denuncia come riscatto sociale fa parte in Trevisan della stessa menzogna insita nella mimesi dell’opera letteraria. Il lavoro per Trevisan, il quale gli ha dedicato così tanta attenzione è un obbligo di sopravvivenza, degradato in ogni sua declinazione a mera necessità materiale, non un viatico per la realizzazione sociale, ecco un’altra ambivalenza, un’antiepica del lavoro per chi gli ha dedicato così tanta attenzione, e la sua “capodopera” Works è lì a dimostrarlo.
Teatro, cinema e uno stile percussivo
Ma Trevisan è stato anche un artista a tutto tondo, tanto eclettico da addentrarsi nella scrittura teatrale (anche in questo caso quasi in simbiosi con l’amato Thomas Bernhard), fino a portarlo a fondare nel 2010 con alcuni sodali concittadini la compagnia di Assurdo Teatro. Il teatro che Vitaliano Trevisan scoprirà come una delle più efficaci frontiere comunicative del contemporaneo. Lo scritto di Simona Morando contiene una documentata e rigorosa cronologia ragionata ricca di approfondimenti sull’ampia opera drammaturgica di Trevisan, della quale in molti casi lo stesso ha curato la regia, opera comprensiva di testi propri o adattamenti o letture sceniche di altrui autori, vale ricordare le sue Note sui Sillabari di Goffredo Parise, opere solo in minima parte edite finora ma che già si trovano disseminate in vario modo nelle sue opere narrative, fra tutte da citare Grotteschi e arabeschi i cui testi sembrano veri e propri serbatoi della proiezione verso la scena, per non dimenticare fra quelli che hanno incontrato la carta stampata Oscillazioni contenuto in Trio senza pianoforte, Due monologhi e Una notte in Tunisia. Non solo il teatro ma anche il cinema, ritagliandosi all’interno di esso sia il ruolo di protagonista sulla scena, su tutti da ricordare la sua interpretazione in Primo Amore di Matteo Garrone per il quale ha curato anche la sceneggiatura, ma anche in molti altri con prove attoriali seppure di secondo piano, e con prove di scrittura autoriali quali con Still Life, in ambedue le occorrenze una frequentazione di un cinema di confine, di rottura, di narrazione del margine in un contesto stilistico originalmente essenziale e scarnificato quanto altamente espressivo, non mancando di trovare anche nella “macchina cinema” un fertile terreno di scontro per la sua critica del contemporaneo. Anche in queste forme espressive il marchio di fabbrica stilistico di Trevisan è riconoscibilissimo, uno studio sui contenuti stilistici che giustamente un testo di critica letteraria mette in primo piano. Uno stile percussivo, traboccante di tic verbali, pasticci logici, refrain ossessivi e prolessi come quel “Pinocchio è morto” (lo pseudonimo del cugino che diventerà il fratello di sangue del Thomas di Il Ponte) che ricorda quel “Dick Laurent è morto” all’inizio di Strade Perdute di David Lynch, “monologhi esteriori”, reiterazioni, ossessioni sintattiche che rispecchiano l’andamento compulsivo dei pensieri di una mente monologante arricciata sulle proprie speculazioni e sperequazioni, nell’estremo tentativo di dare un ordine al caos interno, il procedere di una mente tradotta in scrittura che ricorda David Foster Wallace. Da rimarcare in tal senso il richiamo effettuato da Francesco Brancati nel suo intervento dal titolo Scrivere per disperazione alla riflessione di Marina Cvetaeva sugli scrittori di lago e gli scrittori di fiume ove il primo termine è legato alla stasi e il secondo al movimento, siano essi intesi in senso esteriore che interiore, ambivalenze che forse in nessuno come in Trevisan (e aggiungo in Wallace) si sono manifestate in modo più dirompente e quasi materico nelle sue pagine all’interno della nostra letteratura contemporanea, con la continua tensione tra senso di paralisi e desiderio di fuga, primariamente da sé stessi, un caos ossessivamente ordinato che procede per accumulazione di dati e fatti elaborati da una mente eccelsa e senza requie come quella di Trevisan, il quale la traduce in un andamento narrativo e sintattico che molto risente delle influenze jazzistiche (jazz frequentato attivamente dallo stesso), quasi un’ecolalia condita di imitazione, ripetizione e variazione, concetti variamente ripresi in Standards. Il tema stilistico sintattico-musicale è messo molto bene in luce dal saggio di Alvaro Barbieri uno dei due curatori del volume, il quale coglie l’evoluzione tra il primo e il secondo Trevisan, quello che sfocerà nell’esito più dirompente e completo di Works, tanto da far considerare questo poderoso ibrido tra il saggio e l’autofiction il suo capolavoro, opera con al centro il lavoro, cartina tornasole e spazio rivelativo di grumi problematici e insolubili. Un paragone quello tra Trevisan e David Foster Wallace forse non azzardato se si considera anche solo formalmente il frequente ricorso alle note a piè di pagina nei due scrittori, anche se con funzionalità diverse, ma proprio per il voler dire tutto su tutto, anche in modo saggistico e ironicamente accademico, con tutti i mezzi espressivi possibili, di cui del resto l’utilizzo delle stesse note è sintomatico, con degli ambedue scrittori elaborato armamentario dell’arzigogolata sintassi utilizzata, le subordinate, le parasubordinate e gli spesso frammentati passi e schizzi narrativi, e infine volendo sintetizzare all’estremo le analogie tra i due dicendo che, ove Wallace tratteggiava con la sua scrittura la faccia da bambina ingorda e viziata dell’America contemporanea, Vitaliano Trevisan fa la stessa cosa con il “suo” Veneto, già cattolicissimo e agricolo e giunto dopo “la scomparsa delle lucciole” e nell’estremo passaggio tra i due millenni a essere diventato quella periferia diffusa di capannoni interpuntata da villette a schiera e post-modernità alienante e alienata. Lo stile appunto, terreno di confronto di ogni critico, e nel volume ne è dato ampio risalto, non solo nel puntuale scritto di Alvaro Barbieri, ma diffusamente anche in tutti gli altri che si confrontano con Trevisan da altri punti di vista. Uno stile narrativo e una prosa fitta e sostenuta, ma sempre controllata e propensa a implodere in gorghi e avvitamenti introspettivi che danno una coloritura claustrofobica a brani e periodi con un senso occlusivo di asfissia che replica l’incessante mulinello di pensieri dell’io narrante che fibrilla soprattutto nella trilogia di Thomas (Un mondo meraviglioso, I Quindicimila passi, Il ponte), un rovello e una musichina interiore che in alcuni casi dilaga nell’invettiva e nei prestiti dialettali che non hanno mai una funzione decorativa o macchiettistica di facciata ma vogliono testimoniare la totale immersione unidimensionale e oppressiva nell’humus di un territorio e dei suoi vissuti, più dalla parte di Vincenzo Scamozzi che del celebrato Palladio, il suo allievo, al quale a Vicenza è dedicata solo una piazza secondaria, fuori dal centro. Una sintassi che banalmente definiremmo “bernhardiana” (da Thomas Bernhard), cosa che forse avrebbe indispettito Trevisan, il quale magari avrebbe specificato essere più legato esteticamente a Beckett, benché lo scrittore e drammaturgo austriaco insieme appunto al Premio Nobel irlandese sia da comprendere nella sua sacra triade di riferimento insieme a Francis Bacon. Trevisan interpola, dilaziona, differisce: “fraziono tutto, vendo tutto, polverizzo tutto” come dice il Thomas di I quindicimila passi a seguito della dichiarazione di morte della sorella al notaio Strazzabosco, una sorta di credo estetico che si traspone nel suo modo di rappresentare la realtà che lo/ci circonda e che rimanda a uno degli aspetti affrontati nelle giornate di studio dedicate a Trevisan e confluite nel volume, e cioè le implicazioni della sua narrativa riguardo al paesaggio e al territorio come recita il titolo di una delle sezioni tematiche.
La realtà percepibile frantumata
Per Vitaliano Trevisan la letteratura è soprattutto lo spazio di verifica dell’esistenza e della verità del rappresentato e l’ipervedere, e la ripetizione che è ne è uno dei suo corollari fondamentali, crea una complessa, ossessiva e vorticosa sintassi di tipo bernhardiano o beckettiano, una costante interpretazione del mondo attraverso il linguaggio che trova nel rimuginare e la coazione a ripetere intorno a pensieri e parole la destrutturazione degli stereotipati cliché della letteratura di consumo come lo stesso Trevisan denuncia essersi fatta la letteratura tout court, come del resto tutti gli altri aspetti del contesto sociale e umano, una frammentarietà tipica dei suoi scritti e argomentazioni, legate al granuloso fluire del monologo interiore e che testimonia come scrive in Tristissimi giardini l’estremo specializzarsi degli strumenti di misurazione, dovuto all’incremento delle abilità tecnologiche a discapito di una visione d’insieme, rendendo la realtà percepibile frantumata in mille realtà individuali impossibilitate a farsi discorso collettivo, al pari di qualsiasi merce. Ma la tensione verso tale sguardo di insieme rimane nello scrittore e ne determina la sua statura morale a dispetto del suo isolamento o proprio per effetto di questo, uno sguardo dall’alto che come viene sottolineato proprio negli interventi contenuti nella sezione paesaggio e territorio fanno di Trevisan il più attento cartografo del suburbio diffuso del Nord-Est, da lui tratteggiato in modo dinamico superando per la sua rappresentazione il per molti versi vetusto format del romanzo: “Cartografare un territorio significa tracciare il diagramma delle forze che lo governano” (da Tristissimi giardini). Del rapporto tra Trevisan e il tempo e lo spazio e del suo essere nel territorio e vedere il territorio come un vero cartografo si occupa Matteo Giancotti (l’altro curatore del volume) il quale rileva “pasolinianamente” nel brusco passaggio tra civiltà contadina e industriale la ragione dell’illeggibilità del paesaggio e il mancato assorbimento individuale in quella nuova periferia diffusa. Paesaggio stuprato, frammentato, parcellizzato a discapito di una visione armonica e d’insieme, sottolineando allo stesso tempo la necessità di una scelta “politica”, di visione, la scelta di un tempo e uno di sguardo diverso, che è appunto quello letterario, del punto di vista dello spettatore come Trevisan ha saputo farsi pur senza catarsi consolatorie estetizzanti o velleità e ansie di protagonismo militante. Trevisan riesce a accostare mirabilmente ossessioni di provincia e malessere universale, verso quelle geografie dell’abbandono rese plasticamente nell’immagine quasi topografica dei luoghi abitati che hanno un riscontro emozionale tipico della ratio individuale dell’agire umano nella società postmoderna, e in essa scontando gli effetti dell’abitare quegli scarti, vuoti e rovine come sottolinea in modo puntuale il testo di Mauro Varotto (Geografie dell’abbandono).
Amarezza e consapevolezza
Lo smacco e lo scarto è comunicativo: “Il mondo è sull’orlo della catastrofe, mi dico camminando; un momento dopo mi dico che no, il mondo non è sull’orlo della catastrofe, ma trasmette in diretta la sua catastrofe, che è già in atto ed è esattamente catastrofica” e “La realtà non esiste e non è altro che realtà giornalistica, dunque un bene di consumo come un altro” (da I quindicimila passi), e sempre dallo stesso “L’umanità ha scelto la strada della distruzione, dicono, si è allontanata da Dio e precipita nell’abisso. Sì, dico, sì, precipita nell’abisso, a capofitto nel burrone, la scienza come zavorra”. Se vogliamo trovare dei contenuti forti che si fanno voce della denuncia nelle opere di Trevisan, nei suoi non-romanzi, come amava definirli il suo autore, forse dovremmo partire da passi come questi sopracitati e in ogni caso varrà dotarsi, oltre che dei suoi “non-romanzi”, anche di uno strumento critico come questo preziosissimo volume edito da Mimesis che si suppone non sarà l’ultimo su un autore imponente della nostra contemporaneità e che quindi necessiterà negli anni a venire di nuovi e diversi “punti di vista” interpretativi e prospettive. Forse leggere Vitaliano Trevisan e su Trevisan è intristirsi, intossicarsi di amarezza, rabbia, disincanto e feroce rifiuto dell’esistente, come del resto succede con mostri sacri quali Cioran, Bernhard o Beckett (giusto per rimanere nei territori trevisaniani), ma ha anche un grande afflato liberatorio e di consapevolezza, come solo la parola letteraria sa dare. Ecco forse a cosa serve la critica letteraria quindi: a parlarci dei libri e dei loro autori, decifrandoli e scoprendo, scandagliandole le loro opere, qualcosa di più non solo di questi ma anche di noi stessi e del mondo nel quale abitiamo.
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