Tra fragilità e isolamento, tutto il fascino di Han Kang

Un romanzo controverso, che tocca nel profondo e che spinge a interrogarsi sul tema della malattia mentale, del patriarcato, dell’alienazione. Il tutto impreziosito dal fascino delle filosofie orientali. È “La vegetariana” di Han Kang, progressivo percorso di distruzione, di rifiuto della carne, delle relazioni, della vita…

Vero e proprio caso letterario, pubblicato nella sua versione originale nel 2007 ma divenuto famosissimo a livello globale – e anche in Italia – con la vittoria del Man Booker International Prize nel 2016, La vegetariana (177 pagine, 18 euro), opera della scrittrice sudcoreana e premio Nobel per la letteratura 2024 Han Kang, è un romanzo che, a 18 anni dalla sua pubblicazione, non smette di stupire. Un libro relativamente breve, poco meno di 200 pagine, difficilmente classificabile, che colpisce per una struttura atipica e magnetica e che, periodicamente, riesce a tornare a far parlare di sé. Pubblicato in Italia da Adelphi nel 2016 con la traduzione di Milena Zemira Ciccimarra, e ora disponibile in versione tascabile La vegetariana racconta la storia di Yeong-hye, una giovane donna che decide di smettere di consumare carne dopo un sogno che lei stessa definisce «spaventosamente inquietante».

Tre voci fra detti e non detti

Una storia apparentemente semplice, che la maestria nella scrittura di Han Kang trasforma in una metafora potentissima sulla fragilità umana, sull’isolamento che questa è capace di generare e, soprattutto, sulla condizione femminile nella società coreana contemporanea.

Suddiviso in tre atti (La vegetariana, La macchia mongolica e Fiamme verdi), il romanzo si caratterizza per una struttura narrativa originale e corale. La vicenda di Yeong-hye viene, infatti, raccontata attraverso lo sguardo e la voce di tre narratori: il marito, il cognato e la sorella. Ed è attraverso loro, attraverso le loro percezioni parziali, i loro detti e non detti, le loro ossessioni, che Han Kang permette al lettore di ricostruire il dramma della protagonista, la quale progressivamente perde non solo l’appetito (dapprima per la carne, poi per la vita), ma anche la voce.

La vegetariana, infatti, è uno di quei romanzi in cui, man mano che ci si addentra nella vicenda, la protagonista scompare, si rimpicciolisce, lasciando il racconto della sua storia agli altri personaggi. Il lettore conoscerà la sua voce quasi esclusivamente nel primo atto, quello affidato alla narrazione del marito, il signor Cheong, quando, di tanto in tanto, i suoi pensieri – l’epicentro del suo malessere, somatizzato a partire dal sogno che dà avvio alla vicenda – saranno riportati dall’autrice in alcuni incisi in corsivo: impauriti, incompleti, incomunicabili.

Un tutt’uno con la natura

«Ho fatto un sogno», «Non mangio carne»: sono le poche e uniche parole che Yeonghye riserverà alla dimensione pubblica, agli altri, prima di avviare un distacco dalla società, dalla propria famiglia, dal lavoro, al fine di annullarsi del tutto perseguendo la sua aspirazione: congiungersi al mondo vegetale, agli alberi, divenire un tutt’uno con la natura.

Questo progressivo distacco, questo percorso di distruzione, di rifiuto della carne, delle relazioni, della vita, a fronte di un’attrazione verso l’eternità degli alberi – evidentemente ritenuti incapaci di generare sofferenza – procederà di pari passo con la scomparsa della voce di Yeong-hye, che si farà sempre più flebile man mano che la sua metamorfosi avanza, fino a scomparire del tutto nell’ultimo atto.

Malessere latente, trauma antico

Ed è proprio questo silenzio progressivo l’elemento chiave per la comprensione dell’opera. Smettere di mangiare carne, una scelta apparentemente trascurabile, si rivelerà tutt’altro che insignificante agli occhi degli altri, immersi in una dimensione culturale incapace di leggere la posizione della protagonista tanto in superficie – ora ridicolizzandola, ora osteggiandola – quanto nel suo significato più profondo, come manifestazione di un malessere latente e di un trauma antico e irrimediabile. I tre osservatori e narratori vivranno la scelta di Yeong-hye come un enigma indecifrabile, un evento capace di sovvertire le loro certezze, portandoli ad assumere atteggiamenti di varia natura: ci sarà chi rifiuterà la sua condizione, chi se ne lascerà ossessionare trasformandola in un esercizio di stile violento e narcisistico, chi vi si specchierà, riconoscendosi in essa. Tutti e tre accomunati dall’incapacità di capire e di intercettare (o di dar credito a) la voce della protagonista.

Un’assenza di voce, e quindi un’impossibilità di essere ascoltata, che Han Kang riserva non soltanto a Yeong-hye ma anche all’altra donna protagonista del romanzo, la sorella In-hye. Nonostante sia lei la protagonista del terzo atto, a differenza di quanto accade negli altri due, dove il marito di Yeong-hye e il cognato – nonché marito della stessa In-hye – saranno i narratori diretti delle vicende, in Fiamme verdi il racconto è affidato a un narratore extradiegetico non onnisciente. Una scelta che ha di certo un significato, forse di carattere sociologico e politico, forse più semplicemente legato alla vicenda del romanzo, o forse entrambe le cose, e che accomuna le due donne nel loro percorso all’interno della storia.

La scrittura conturbante

Al punto di vista (senza voce) di In-hye è affidato l’atto che chiude il racconto, l’apice del dramma della protagonista, che – stremata dalle conseguenze della sua scelta, delle quali, attraverso i ricordi della sorella, Han Kang lascerà intravedere le ragioni, e dalle reazioni che questa ha generato in chi le sta attorno – giunge alla fase finale del suo percorso. Un atto complesso, inclassificabile e, come tutto il romanzo, aperto a una moltitudine di interpretazioni.

Espressione della K-Wave (o Hallyu), ovvero “Ondata Coreana”, fenomeno culturale globale che negli ultimi anni ha acceso i riflettori sulla Corea del Sud, La vegetariana si inserisce in un contesto di crescente attenzione per la letteratura sudcoreana, che affronta tematiche universali come il trauma, la repressione e la libertà individuale. Coerente con questo territorio e immaginario letterario, non può che essere un romanzo controverso, che tocca nel profondo e che spinge a interrogarsi sul tema della malattia mentale, del patriarcato, dell’alienazione. Il tutto impreziosito dal fascino delle filosofie orientali, forse non del tutto comprensibili per i lettori occidentali, ma proprio per questo magnetico, e dalla scrittura conturbante di Han Kang, che accompagna il lettore tra tocchi da impressionista e abissi dell’esistenza.

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