Bolaño, tutto iniziò con uno sgangherato e lisergico mosaico…

La immaginifica e spiazzante penna di Roberto Bolaño fa capolino anche ne “Lo spirito della fantascienza”, opera giovanile pubblicata postuma, in cui si ravvisano i principali motivi delle opere maggiori, confraternite semiclandestine, un alter ego dell’autore, personaggi improbabili e underground alle prese con la letteratura e con l’amore…

Non so dire con certezza se possa dirmi affetto dalla bolanite, cioè quella strana malattia della quale giuro aver sentito parlare a proposito di chi entra in contatto con Roberto Bolaño, sebbene abbia su scaffale diversi titoli dello scrittore cileno, e la sensazione ogni volta che ne apro o ne termino uno è quella di dire “ora basta…giuro che questo è l’ultimo”, per la loro disturbante frammentarietà, per il caleidoscopico citazionismo letterario che rischia a un primo sguardo di renderli inaccessibili a una loro decifrazione, in alcuni casi con dei picchi surreali difficilmente digeribili, quando questi non sono dei tomi elefantiaci (vedi il postumo 2666 o I detective selvaggi). Non so dire nemmeno se questa supposta malattia o dipendenza sia qualcosa di assimilabile a una eventuale dostoevskite, o una shakespearite o leopardite, e così via e chi più ne ha più ne metta, ammesso che esistano cose del genere. Fatto sta che simili vocaboli relativi a presunte affezioni letterarie possono essere associati solo a autori per i quali esiste un vero e proprio culto, e Bolaño è uno di questi.

La letteratura in discussione

Bolanite o meno lo spirito dello scrittore cileno scomparso prematuramente nel 2003 aleggia tra gli amanti della letteratura, culto alimentatosi nel corso degli anni e soprattutto a partire proprio dalla sua morte, da quando è iniziata la pubblicazione di ogni suo possibile scritto rintracciabile, presso di noi per merito di Adelphi, ove uno scrittore come lui, il quale ha reinventato lo stesso concetto di romanzo, superando i generi e mettendo in discussione e alla berlina il concetto stesso di letteratura, creandone allo stesso tempo una mole di una quantità e qualità inusitata, non poteva che trovare la sua naturale collocazione, questo dopo che le sue prime opere erano apparse nei tardi anni Novanta del secolo scorso (epoca nella quale ho iniziato a sentir parlare di bolanite) nei cataloghi di Sellerio.

È del 2018, a seguito della scoperta tra le sue carte di uno dei suoi inediti, la pubblicazione italiana di Lo spirito della fantascienza (206 pagine, 18 euro), grazie appunto a Adelphi, con la consueta traduzione di Ilide Carmignani, traduttrice e curatrice di molte sue opere. La firma autografa riporta la data del 1984, a Blanes, presso Barcellona, ultima dimora dello scrittore e esule cileno, un romanzo al quale Bolaño  aveva iniziato a lavorare nei primi anni Ottanta, abbozzato e poi abbandonato negli anni dei suoi esordi e che costituisce a tutti gli effetti il suo primo romanzo, della cui esistenza si trovano tracce lungo tutta la sua parabola narrativa.

Lettere deliranti

Cosa c‘entra la fantascienza del titolo e il suo supposto spirito? Poco e molto. La (in parte) bistrattata etichetta di genere fa in effetti la sua comparsa quasi come un cameo (seppure reiterato) all’interno del romanzo e ha la forma delle deliranti lettere che il giovane aspirante scrittore Jan Schrella, alias Roberto Bolaño come scopriremo nel finale, invia a autori nordamericani. Queste sono indirizzate  a autori o autrici realmente esistiti, fra i quali James Hauer, Robert Silverberg, Ursula K. Le Guin, senza dimenticare uno degli indiscussi maestri del genere quale Philip K. Dick, il quale pur non essendo uno dei destinatari della frenesia epistolare del giovane scrittore ne ingombra le farneticanti fantasie tanto da fargli dire. “Ah, se potessi mettermi in comunicazione coi morti scriverei a Philip K. Dick”. Alla reale esistenza degli autori fa da contrappunto l’immaginifica aneddotica quanto le stralunate richieste e istanze avanzate dal mittente, fra le quali quella di concedere delle borse di studio a autori del Terzo Mondo più bravi a descrivere un robot, perché, ovvio si parla di letteratura, e fantascientifica o meno non importa se i fatti siano reali o inventati, basta immaginare, non è importante che sia vero.

Distrito Federal onirico e concreto

È su questo duplice piano, reale-immaginario, tangibile-allucinatorio, meditato (come documentano gli appunti di lavorazione dello scrittore in appendice al volume)-psichedelico, che si sviluppa questo primo romanzo di Roberto Bolaño, affascinante per il suo onirismo quanto per il concretissimo sfondo che è l’ambientazione di una Città del Messico diurna e notturna, cornice delle notti alcoliche dei protagonisti, delle feste con compagne di studi con le quali si instaurano conturbanti e disturbanti relazioni, delle ossessioni come quelle in primis proprio di Jan Schrella e del suo compagno di viaggio nonché coinquilino e altrettanto aspirante scrittore nonché giornalista culturale per «La Nación» Remo Morán, presunto destinatario di un premio letterario per il quale mostra sorpresa e distacco, con il quale avviene durante tutto il romanzo un continuo passaggio di testimone, un’ iniziazione alla vita, al fantasmatico mondo letterario che è quanto di più smaccatamente autobiografico ci possa essere in considerazione dell’allora in corso apprendistato dell’autore, proprio nel Distrito Federal (la capitale messicana verrà sempre appellata in questo modo), il quale lo si può immaginare alle prese con la stessa monofobia letteraria dei personaggi e che lo porta a riempire le pagine del volume, come di molti altri successivi, con dialoghi e citazioni con compagni di strada e di lettere improbabili appartenenti a una sorta di carboneria o confraternita letteraria semiclandestina, destinati per sempre all’anonimato, alla sconfitta o alla scomparsa sotto le spire di un potere tanto impersonale quanto implacabile. Vale ricordare tra questi José Arco, un giovane aspirante poeta conosciuto a uno degli innumerevoli seminari di poesia (sembra che all’Università di Città del Messico non si faccia altro), il quale diverrà il compagno di strada dei protagonisti in una città nella quale si dice vi fossero al tempo degli eventi, tempo mai completamente edificabile e identificabile, oltre seicento riviste di poesia, l’elefantismo letterario e il meta-letterario che è uno dei topos della scrittura bolaniana, nella quale tutto sembra avvolgersi all’interno di un abisso che sono le discussioni su poeti sconosciuti, su movimenti e manifesti artistici che sembrano destinati a durare l’arco di una giornata. Per non parlare delle creazioni e artifizi tipicamente d’autore quali la sedicente Accademia della Patata o l’Università Sconosciuta, la Principessa Atzeca, uno dei classici totem bolaniani per quanto la immaginifica, sontuosa e spiazzante penna dell’autore riesce a tratteggiarne i contorni quando questa non è che una vecchia moto tirata a lucido con la quale i protagonisti scorrazzano tra le strade del Distrito Federal. Questo è quello che accade quando ci si trovi tra i piedi Bolaño, come accade a Remo Moràn, inquilino e compagno di avventure dell’aspirante scrittore Jan (Bolaño stesso?) quando rientrando in casa si trova tra i piedi la montagna di tomi di fantascienza accatastati, un Remo (forse l’alter ego di Jan) del resto più intensamente preso dalla sua iniziazione sentimentale con la sfuggente Laura.

Una discesa agli inferi e un inno pacifista

Difficile trovare un centro gravitazionale in questo romanzo, sarebbe riduttivo farlo cercandolo nelle tredici pagine finali (si immagina una aggiunta) dal titolo Manifesto messicano, un viaggio nei bagni pubblici, i bagni termali di Città del Messico, una sorta di discesa agli inferi e al piacere dal sapore sinistro e conturbante, così come lo sarebbe cercarlo nell’ultima lettera che scrive Jan ai suoi autori preferiti, la più bella e commovente, un vero canto contro la guerra, un inno pacifista che declinato a un’apologia del sesso sembra ricordare qualche canzone di John Lennon. Forse più plausibile e significativo potrebbe essere cercarlo nella polvere cosmica fotografata al microscopio che campeggia nella copertina di un romanzo che per stile e forma può a posteriori essere considerato l’incubatrice di tutte le opere successive dell’autore cileno, una narrazione che segue la tipica frammentarietà e gioco di specchi e composizione a puzzle tipica di tutte le sue opere, tanto da far ritrovare in Lo Spirito della fantascienza – pubblicato postumo – stesso la ricorrenza dei temi e degli ambienti di I Detective selvaggi o di Notturno cileno, ad esempio, una narrazione mai come in questo caso così frattale, nella quale la tipica espansione di una cosiddetta trama in una molteplicità di storie parallele che si diramano dalle voce dei personaggi, sempre periferici, improbabili, underground, reietti, dolorosi, doloranti e più o meno patetici, storie spacciate per vere (pur nella finzione narrativa) o esplicitamente inventate dalla mente disturbata e disturbante delle loro stesse voci, vanno a costruire uno sgangherato e lisergico mosaico che ritroveremo o abbiamo già trovato nelle opere cosiddette maggiori di Roberto Bolaño, tanto da far pensare che a dispetto o proprio per effetto della fantascienza, vera o presunta del titolo rispetto ai contenuti del libro, sia giustificata quella strana sindrome o dipendenza dal nome “bolanite”.

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