“L’isola” precede di qualche anno la fase più feconda della produzione di Sándor Márai, ma è già un testo compiuto su alcuni suoi temi irrinunciabili, libertà, solitudine, tradimento, in un incessante scavo psicologico. In fuga dal suo integerrimo passato di padre di famiglia e da un tradimento con una ballerina, un professore approda in un’hotel in riva all’Adriatico e lì prova a interrogarsi sul senso delle cose, sulla sofferenza e sulla privazione. Fino a un appuntamento col destino…
L’esperienza da lettori di molti di noi non sarebbe la stessa senza un figlio dell’impero asburgico, fuggito dall’Ungheria, ostile al governo comunista, morto suicida in California, l’anno in cui fu picconato il muro di Berlino. Solitario e nomade, penalizzato dalla scelta di scrivere in ungherese e non in tedesco (glielo rimproverava Thomas Mann…), dal cuore squisitamente mitteleuropeo, Sándor Márai, fra i grandi della sua epoca, ha trovato una sponda felice, in Italia, nella Adelphi di Roberto Calasso, grazie a cui è stato rilanciato in tutto il mondo. Ogni sua prova narrativa è un mondo di cui difficilmente si può fare a meno, concetto che vale anche per L’isola (177 pagine, 12 euro), romanzo del 1934, tradotto da Laura Sgarioto, tornato adesso nelle librerie in edizione tascabile. Un libro che precede di qualche anno la fase più feconda della produzione di Márai, ma che ha già in sé una compiutezza e una maturità rintracciabili in pochi altri autori.
La mezza età e una domanda
Siamo in presenza di una storia affascinante ed enigmatica, in cui aleggiano la ricerca del senso della vita e dell’amore, in cui si palesano centrali, centralissime le riflessioni sulla libertà, sulla solitudine, sul tradimento, in un incessante scavo psicologico, nell’estenuante caccia alla risposta di una domanda.
Con mite soddisfazione rifletté che sia pur a grandi linee aveva portato a termine il suo lavoro, aveva quasi adempiuto il suo dovere, aveva vissuto come il suo prossimo e le circostanze gli avevano richiesto, poi aveva anche vissuto in maniera diversa, aveva raccolto dati grazie agli strumenti del corpo, e ora non aveva altro da fare che cercare una riposta alla domanda, capire perché nonostante ciò avesse sofferto in modo così infame per tutta la sua esistenza…
Sono questi i pensieri che appartengono al non ancora cinquantenne Victor Henrik Askenasi, linguista che insegna greco a Parigi e, mentre è diretto in Grecia per una vacanza, si ferma a metà strada, sull’Adriatico, all’hotel Argentina nei pressi di Ragusa – così si chiamava allora l’attuale Dubrovnik – dove pensa di poter andare alla ricerca di se stesso e finisce per avere un appuntamento con il destino. Se vogliamo Askenasi è un’evoluzione e una variazione sul tema di un altro professore protagonista di un precedente romanzo di Sándor Márai, Bébi, il primo amore (qui l’articolo), Gáspár, che soggiorna anche lui in un albergo… S’interroga, uomo di mezza età, non solo sulla sofferenza, ma in generale su un vuoto difficile da definire, sul senso della privazione e su una generale assenza di appagamento nei giorni vissuti. Alle spalle ha un passato integerrimo, il matrimonio con la bellissima Anna, che gli ha dato una figlia, e un’intensa e fugace avventura con una ballerina russa incontrata in metro, Eliz, un desiderio fatale, orientato al piacere fisico, bruciato in fretta, che manda in fumo il suo passato familiare, ma gli dà soltanto l’illusione di trovare le risposte a cui anela, di riempire il vuoto che gli si squarcia dentro. Dopo la nuova rottura, sempre in preda al suo malessere esistenziale e a una perenne insoddisfazione, vuol concedersi un periodo di riposo…
Altre braccia di donna
Il terzo approdo di Askenasi, nel caldo asfissiante di Ragusa, è ancora tra le braccia di una donna («dai capelli biondo cenere»), che lo invita per nulla velatamente, facendogli sentire alla reception dell’hotel Argentina il numero della sua camera, zwoundvierzig, quarantadue. Se il nuovo tentativo, ancora abbinato a un certo benessere e a un senso di liberazione, sarà quello giusto e definitivo, se il suo male dell’anima sarà debellato o anche alleviato, sarà il lettore a scoprirlo. La cifra distintiva dell’incedere stilistico e della costante indagine psicologica è già quella del miglior Sándor Márai, L’isola è romanzo di bivi, di ossessioni, di emozioni vane, di vuoti e rovinose cadute, di lucidità al di là del bene e del male, di azioni che vanno al di là delle convenzioni sociali.
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