“Quattro malviventi in fuga” di Mario Valentini è un blando thriller, con qualche carattere noir, a tratti una cruda neorealista tranche de vie. E, in qualche modo, si ricollega al precedente romanzo, “Vangeli nuovissimi” – in cui si rivisitavano alcuni episodi evangelici – anche se nel nuovo libro Gesù Cristo è il soprannome di un boss palermitano contrariato per i delitti di quattro giovanissimi inesperti delinquenti…
Delle tre città riportate nelle note autobiografiche di Mario Valentini, Palermo, ultima in ordine cronologico (dopo Messina e Bologna), è senz’altro quella più spesso raccontata e/o descritta e/o riflessa nei suoi libri: in Come un sillabario e (soprattutto) In certi quartieri di sicuro, ma non solo lì. Palermo torna ad essere una presenza, forte più che mai, in quest’ultimo romanzo, Quattro giovani malviventi in fuga (130 pagine, 14,50 euro), pubblicato da Exorma.
Rapina col morto
I quattro giovani protagonisti diventano ufficialmente i malviventi in fuga del titolo solo nella seconda parte, a p. 82, dando al romanzo una coloritura thriller, dopo pagine fra le quali si erano aggirati senza fuggire da o verso alcunché. L’evento che innesca la fuga è presto detto: nella loro prima rapina “da grandi” c’è scappato il morto. Da quel momento, divisi in coppie, la voce narrante li condurrà-seguirà alla stazione centrale e poi su un affollato autobus diretto alla spiaggia di Mondello, dove si riuniranno e passeranno anche parte del pomeriggio insieme ad altri amici, come se niente fosse accaduto. Rientrati alla Zecca, il loro quartiere alla periferia di Palermo, si accorgeranno di essere braccati non solo dalle forze dell’ordine ma anche dal boss locale, Tanino Imparato, fortemente e doppiamente contrariato: dal fatto che, grazie alla loro disinvolta imperizia, la polizia ha scoperto il suo bunker, e poi per l’assedio poliziesco per terra e per aria al “suo” quartiere nel tentativo, appunto, di catturare i rapinatori-omicidi. Nascostisi nel box del fratello di uno di loro per diversi giorni, abbandonati da tutti, familiari e amici compresi, i quattro sono costretti ad allontanarsi dal rifugio precario, improvvisando irrazionali fughe separate. Il primo, affidandosi alla protezione paterna di uno dei collaboratori stretti del boss, due nascondendosi nello scantinato di un palazzo con lavori in corso, il quarto attuando una strategia che alla fine si rivelerà essere l’unica vincente. Lo statuto (blandamente) thriller della narrazione non autorizza a dire di più.
Palermo esteso ghetto
Il romanzo però presenta anche qualche carattere noir: l’attenzione puntata molto più sui criminali e sul loro ambiente che sull’investigatore e l’indagine. E inoltre la contrapposizione tutt’altro che netta fra società criminale e società “per bene”, indifferente o collusa con l’altra, che immerge la narrazione in un pessimismo che esclude il lieto fine per tutti. Il quartiere da cui parte e dove si conclude l’esistenza narrativa dei protagonisti si trova straordinariamente a ridosso di ville con piscina, a conferma del fatto che Palermo è, di suo e in tutta la sua estensione, una città porosa, fatta di continue smagliature e repentine ricuciture. È tutta un esteso ghetto. Ma è anche la sua improvvisa negazione. Accurate le descrizioni quasi cinematografiche della sua topografia, dei confini e delle vie di accesso (e di fuga), degli spazi commerciali o industriali abbandonati e inselvatichiti o di quelli più caoticamente abitati, con le attività economiche, lecite e illecite, e la presenza di due soli presìdi legali (scuola e consultorio) a contendere vanamente al boss, detto Gesù Cristo, e ai suoi uomini la gestione di ogni aspetto della vita degli abitanti. Non certo un capo militare (ma non poteva non esserlo), Gesù Cristo appare pubblicamente come un imprenditore (lo è, formalmente) e soprattutto un benefattore. La pratica attiva della paura e della complicità gli danno un controllo assoluto: da un lato impedendo qualunque forma di autonomia a individui e gruppi, dall’altro provvedendo a concedere favori ai richiedenti bisognosi (tutti, cioè, prima o poi) che gli sarebbero stati (eternamente) debitori. Il quartiere mancava di tutto e sembrava esserne felice, chiosa il narratore. E a questo punto il lettore sospetta fortemente di trovarsi nei paraggi di una cruda tranche de vie, di un segmento neorealista, aggiornato e cittadino, del ciclo dei Vinti, un reportage di denuncia del degrado sociale e urbanistico di una periferia contemporanea, potenzialmente estendibile peraltro, mutatis mutandis, a quelle di città come Napoli o Roma o Milano o….
Un testo cangiante
A segnalare che non sia questo (o prevalentemente questo o solamente questo) l’intento dell’autore c’è, fin dalla pagina di apertura, il resoconto dell’ultima delle strampalate rapine fatte dai quattro, ancora minorenni: a mano armata, a viso scoperto e usando gli autobus urbani come mezzo di fuga, peraltro in un giorno di sciopero dei mezzi di trasporto: ai poliziotti non gli era parso vero, non potevano credere ai loro occhi, vederli lì appoggiati alla pensilina dell’831 a ridere e a fumare [hashish] con addosso i cappellini appena rubati. Segue, qualche pagina dopo, l’esilarante parafrasi, durante la detenzione al carcere minorile, dei testi delle canzoni e delle immagini dei videoclip di musica napoletana (Gianni Vezzosi, Gianni Celeste, Tony Colombo…) o il dialogo tra maestri troppo elementari e poco intuitivi e bambini, sempre assenti a scuola nel giorno di visita settimanale ai fratelli detenuti [p. 9]. L’ironia stralunata affiora più volte nel corso del romanzo, anche per brevi incisi, o soffermandosi ad esempio sulla battuta di caccia grossa dell’agente De Luca Serafino. A volte lascia il posto a una più classica comicità venata di sadismo, ad esempio negli assillanti tentativi (conclusisi fortuitamente in farsa) di due dei protagonisti di importunare un gruppetto di ragazze sull’autobus, o nel molesto esibizionismo del quartetto nei tiri al pallone in spiaggia, o ancora nella gita in mare su un pedalò, da loro accessoriato con uno stereo generosamente condiviso a tutto volume. Esempi che potrebbero indurre a riclassificare il romanzo come umoristico, satirico o goliardico, inglobando in sé (e annullandone) il valore di drammatico, reale reportage ipotizzato qualche paragrafo prima. In altre parole: quanto e come il lettore dovrebbe prendere sul serio un testo così cangiante? Con quale intento (quello principale, almeno) è stato scritto?
Il narratore? Un contaballe…
Ci soccorre in tal senso la Nota Finale dello stesso autore, a p. 133, da cui estraggo le righe iniziali: Se qualcuno si è fatto l’idea che quanto qui raccontato corrisponda a fatti realmente accaduti, deve ricredersi. Il narratore è per statuto un contaballe. A me sembra che qui Valentini intenda innanzitutto rivendicare al proprio libro lo statuto di consapevole testo creativo, letterario, e non quello di documento di denuncia (né di prevalente, divertito passatempo). Lo conferma l’autore verso la conclusione della stessa Nota, laddove separa la realtà dal racconto e la sua macchina immaginativa. Ma questo lo dice apertamente e da subito anche la voce narrante, che rompe la… “quarta parete” narrativa, annunciandoci che sta allestendo (per noi lettori) un racconto. L’incipit mi sembra inequivocabile in questo senso: La prima cosa da dire è che erano quattro. Per ora li chiameremo con il loro soprannome, quello con cui tutti li conoscevano alla Zecca. Poi vedremo cosa è meglio fare. Ci sarà modo, penso, di presentarli ben benino più in là. Il gioco metatestuale viene in seguito portato avanti in maniera più sottile, quando la voce narrante si lascia sfuggire qui e là un “io” esplicito o comunque un verbo in prima persona. Oppure nel brano di p. 73-74 (riportato nella quarta di copertina) sull’intervento di Dio che gioca a subbuteo con i fatti degli uomini: nel caso specifico con il piano delle quattro teste vacanti strafatte di anfetamina in cerca di un furgone. Qui Dio è l’autore che sta allestendo il plot, le mosse e le contromosse nella preparazione della rapina (e dell’intera concatenazione degli eventi). Dio che è ben al di sopra di Gesù Cristo-Tanino Imparato, e che infatti alla fine… La metatestualità chiude altresì il testo con l’ammicco conclusivo che crea un ponte formale (volutamente distorto, ma innegabile) coi Vangeli nuovissimi, ultima opera precedentemente pubblicata (ne abbiamo scritto qui), mettendo in risalto la linea di continuità della produzione autoriale. L’aspetto letterario è visibile nella scelta di sospendere la narrazione della rapina nel momento in cui avviene e di posticiparla, facendola emergere, in momenti diversi, dalla ricostruzione degli inquirenti o dalla stampa o dal telegiornale. Lo si ritrova ancora nelle scelte linguistiche ed espressive: la già citata battuta di caccia grossa ad esempio, viene ripresa e utilizzata crudamente più volte nella caccia ai quattro fuggitivi; è nelle metafore orchestrali del linguaggio mafioso, o nella differenziazione linguistico-antropologica fra pallone, pallina e palla. E infine nell’assegnazione di un ruolo antitetico al soprannome del personaggio di Palummu Mutu, dopo che lo vediamo per l’ultima volta a cavalcioni sul muro di separazione fra il quartiere ghetto e la villa con piscina.
… che prova a dar forma a una verità
L’affermazione perentoria che il narratore sia un contaballe (e che quindi fatti e personaggi siano per statuto frutto della sua immaginazione) viene ridefinita qualche rigo più avanti: Ma il narratore è un contaballe che prova quasi sempre a dar forma, in qualche modo, a una verità. Mario Valentini ci prova inventandosi le vite di quattro giovani di un quartiere ghetto della periferia di Palermo e ponendole in differenti, articolati contesti della mappa della città (il carcere minorile, la stazione centrale, Mondello…) e del loro quartiere in particolare. Immaginandone le possibili interazioni con quegli spazi topografici e antropologici al tempo stesso, dove si perpetuano stili di vita e di pensiero, l’autore ci racconta una realtà più che verosimile, puntellandola all’occasione anche con date, nomi e cenni a fatti di cronaca realmente accaduti. È attraverso la personale creatività formale, espressiva e tematica dell’autore che al lettore arriva così anche la brutalità (tutta vera e reale) dei rapporti di forza tipici di certe periferie urbane sottratte alla legalità, delle realissime pagine sull’infanzia negata (pp. 58-59), e del disinteresse politico a intervenire per tentare di sottrarre gli abitanti inermi di quelle aree a un destino già scritto.
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