Il racconto in prima persona di un anziano che perde progressivamente la memoria. È questo “Chimere” di J. Bernlef, classico della letteratura olandese tardivamente tradotto in Italia. Ritratto perfino brutale di certa senilità, quando i ricordi si sgretolano, tra incredulità, rabbia e disperazione
I classici sono quei libri in cui rifugiarsi quando il presente, anche il presente della letteratura, ci sfugge o non ci dice più di tanto, non ci squassa, non ci disorienta. Rifugiarsi nei classici è sempre una buona idea. Se poi si tratta di classici che non si sono ancora consolidati nell’immaginario collettivo, meglio. Chi ha mai sentito parlare di J. Bernlef? È una delle ultime proposte di Fazi che, in tema di classici, viventi e non, da far scoprire ai lettori italiani si è da sempre distinta, con una sequela di scelte felici, apprezzate da critica e pubblico: da John Fante a Gore Vidal, da John Williams, l’autore di Stoner, a Elizabeth Jane Howard, da Boris Pahor a Hilary Mantel, a Elizabeth Strout. L’olandese J. Bernlef – è uno pseudonimo, il principale di quest’autore molto prolifico che ne ha adoperati altri – è scrittore ampiamente riconosciuto e premiato in patria, morto settantacinquenne nel 2012. In principio poeta, a partire dal 1960, J. Bernlef fu anche traduttore, ma si affermò come romanziere e, in particolare con Chimere (164 pagine, 16,50 euro), pubblicato nel 1984 e adesso tradotto per Fazi da Stefano Musilli; romanzo di grande successo in Olanda, ebbe anche una trasposizione cinematografica e diventò opera teatrale. Un ritratto preciso e perfino brutale di certa senilità, un racconto attraverso la prospettiva della prima persona che è un grande rischio, superato però agevolmente.
Dallo spaesamento ai pensieri in tilt
Il settantunenne Maarten Klein e la moglie Vera sono originari di Alkmaar, nell’Olanda del nord, ma vivono negli Usa, non lontano da Boston, da quando i nazisti avevano sfondato anche a ovest della Germania. In pensione da qualche anno («ero una ruota dell’ingranaggio, una ruota ben pagata»), l’uomo – che racconta in prima persona – vive un momento di spaesamento, guardando fuori dalla finestra e sorprendendosi di un paesaggio sostanzialmente tranquillo, innevato ma senza brulichio di bimbi (nulla da eccepire, gli fa notare la moglie, visto che è domenica), un black-out mnemonico di poco conto, seguito da piccole dimenticanze su abitudini quotidiane, e infine da una lunga e inesorabile perdita della memoria, qualcosa fra la demenza e l’Alzheimer. Iniziano a essere più rari i momenti di lucidità, i ricordi si dissolvono, si sgretolano, va tutto terribilmente in frantumi, giorno dopo giorno, nell’incredulità, prima rabbiosa poi disperata della consorte. Ricompaiono persone del passato, i pensieri vanno in tilt, le coordinate spaziotemporali si confondono, tanto che a un certo punto Maarten non ha più piccoli passaggi a vuoto su questo o quel particolare, ma straparla.
… I nazisti ne usciranno sconfitti, per me questo è chiaro come il sole. Il grosso del paese è libero, ormai. Sembra che la regina sia già arrivata a Eindhoven. Dobbiamo tenere duro, malgrado la fame che continuiamo ad avere.
Empatia, senza sentimentalismo
La progressiva assenza a se stesso, le difficoltà con la lingua inglese che invece conosce da decenni, il riaffiorare di qualche ricordo lontano nel tempo ma apparentemente più vicino del presente, fanno scivolare il protagonista in una condizione da cui niente sembra salvarlo o solo alleviare sintomi tragici, nemmeno sfogliare un vecchio album di fotografie. J. Bernlef è abilissimo nel trasmettere empatia attraverso una mente che vacilla, commuove senza scadere mai nel sentimentalismo, solo evocando l’impotenza di marito e moglie davanti allo scorrere del tempo che nulla risparmia ed è irreversibile, solo congedandosi con pagine finali dalle frasi frammentarie. Conclusa la lettura, delicata e impietosa al tempo stesso, la prima impressione è che l’editoria italiana abbia ignorato troppo a lungo il talento dell’olandese J. Bernlef. Forse è giunto il tempo del suo riscatto, c’è solo di che rallegrarsene.
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