Anton Shammas, vita e avi del palestinese che scrive in ebraico

Anton Shammas, arabo israeliano di famiglia cristiana, ha scritto un romanzo che è un unicum e che torna in libreria dopo decenni, “Arabeschi”. Autofiction ante-litteram, saga familiare, riflessione sulle contraddizioni dell’identità degli arabi di Israele, Paese che non ama tutti i suoi abitanti, e per questo è attaccato politicamente e linguisticamente, con un ebraico scritto in modo sontuoso

Un buco editoriale, un buco nero, riempito di luce dopo decenni. Un’operazione da applausi, quella delle edizioni Tamu, che hanno restituito al pubblico italiano la possibilità di leggere un grandissimo romanzo, l’unico dato alle stampe da Anton Shammas, classe 1950, palestinese cresciuto in una famiglia cristiana della Galilea, da tempo docente di letterature comparate negli Usa. Principalmente traduttore dall’arabo e in arabo (specie di drammaturghi come Fo, Pinter, Beckett), il palestinese Anton Shammas fu capace di scrivere Arabeschi (331 pagine, 18 euro) in un ebraico sontuoso, che strappò applausi alla società letteraria israeliana. Arabeschi, pubblicato nel 1986, quando Shammas era ancora un giovane scrittore, ebbe grande successo negli Stati Uniti (esaltato da molti, a cominciare da John Updike, con la sola altisonante eccezione di Cynthia Ozick) e fu pubblicato in Italia da Mondadori, nella stessa traduzione riproposta adesso da Tamu, quella di Laura Lovisetti Fuà. Un’opera che lasciò il segno non solo sul piano letterario, ma anche politicamente, tanto da non essere tradotta in arabo per volontà dell’autore, intenzionato a dimostrare come la lingua ebraica non fosse prerogativa della maggioranza, che non dovesse necessariamente fare riferimento all’ebraismo ma a tutte le realtà di Israele, un Paese che decenni dopo fa ancora i conti con divisioni, violenze, odi.

Le violenze e i massacri della Nabka

Prima di ogni altra cosa è un romanzo sull’identità personale e di un popolo, e in particolare sulle contraddizioni e sulla schizofrenia dell’identità degli arabi di Israele, e sullo sradicamento e sull’oppressione che vivono, figli del mondo arabo ma abitanti di un Paese che non li ama. Sopravvissuta in qualche modo alla Nabka – la “catastrofe”, ovvero la cacciata, dalle loro case e dalle loro terre, di oltre settecentomila palestinesi, tra giugno 1946 e gennaio 1949, centinaia di villaggi a ferro e fuoco, rasi al suolo, tra violenze e massacri – la famiglia di Anton Shammas (con il villaggio natale di Fassuta) ha certamente ispirato Arabeschi, frutto maturo dopo due raccolte di poesie, sempre in ebraico, dello stesso autore. Ci sono storia, mitologia, autobiografia romanzata tendente all’autofiction in anticipo sul successo dominante (ma forse, a parte certi capostipiti, l’onda si sta ritirando…), una ripetuta dimostrazione di come la vita si faccia letteratura e viceversa.

Vedendo un gatto nero attraversare la strada, si segnò macchinalmente, e tosto rimpianse di aver così invocato invano il Nome del Signore. Ma i soldato continuavano ad avvicinarsi ed egli sentì riaccendersi la sua rabbia al pensiero del tempo che perdeva in simili riflessioni. Senza soffermarsi a ponderare quale decisione prendere, rientrò in casa, vuotò il sacco che aveva deposto a terra, se lo arrotolò sotto il braccio, con un salto fu fuori e corse a gambe levate verso il villaggio.
Questo avveniva il 30 ottobre 1948.
Eccetto Abu Shaker, tutti gli uomini avevano lasciato il villaggio all’alba, alla ricerca di un nascondiglio nelle vicinanze, dove aspettare che si placasse la fuga dei conquistatori. Le donne e i bambini, che si erano rifugiati sotto il tetto del Profeta Elia, il Santo Patrono al quale era dedicata la chiesa, innalzavano preghiere e suppliche verso la Vergine Maria perché allontanasse dalle labbra dei suoi fedeli la coppa amara dell’esilio.

L’addio e le radici

Il romanzo porta avanti, oltre che pensieri palestinesi in lingua ebraica, due linee narrative (“Il narratore” e “Il racconto”) distanti qualche decennio, linee narrative che si ripetono e si riavvolgono, come da tradizione orale, s’intrecciano appunto come arabeschi, potenzialmente infiniti. Da una parte (“Il narratore”) uno scrittore palestinese di nome Anton Shammas racconta il suo addio a Gerusalemme, lasciata prima per Parigi e poi per gli Stati Uniti, dall’altra (“Il racconto”) lo stesso scrittore, figlio di un calzolaio, si guarda indietro, ritrova le radici – assistito dalla vorticosa affabulazione e dalla stupefacente memoria di uno zio, Yusuf – volteggia fra le generazioni della sua famiglia allargata, in un affascinante frullato spazio-temporale, col baricentro nella vita contadina di un villaggio in cui non mancano asperità e piccole gioie, superstizioni e fanatismo, esotismo e certo soprannaturale, e in cui spiccano l’odore della terra e del cibo, anche solo un pezzo di pane bagnato nell’olio.

Una donna e un altro scrittore

Nella moltitudine di figure a cui Anton Shammas s’affida, per imbastire Arabeschi, spiccano una donna e un altro scrittore. Suray Said (o forse Laila Khuri?), una cinquantenne dai capelli color cenere, è la coprotagonista di un erotico rendez-vous, reso sulla pagina con poesia e passione. Uno scrittore di nome Yehoshua Bar-On – probabilmente rappresenta la società letteraria israeliana, se non qualche suo esponente di spicco – alle prese con la stesura di un romanzo che ha per protagonista un arabo, un autore al tempo stesso antagonista di Shammas, che però nutre per lui anche una specie di affetto. Basterebbero solo questi due personaggi per fare di Arabeschi un libro memorabile, ma c’è molto di più…

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