L’epica della Lazio e di “Long John” Chinaglia, il rumore dei guantoni dei pugilatori, tennisti non necessariamente simpatici, miti sghembi ma mai fasulli riempiono le pagine devote e visionarie de “La Gloria” di Aurelio Picca, ancora sovversivo e nel pieno del suo splendore letterario. Scrittore non allineato, che si infervora per imprese sportive che non sono necessariamente successi o risultati rimasti nella storia: vengono prima lealtà, sudore, dignità…
L’essenza dello sport affidata ad alcuni scrittori perché la dispieghino con parole sapienti, vissute, anche furibonde. La nuova collana di Baldini + Castoldi dedicata allo sport, I Colibrì, guarda al passato (alla tradizione di chi ha in catalogo Brera e Clerici) e al futuro, affidando i primi due titoli ad Aurelio Picca e a Dario Voltolini. Scelta felice. Aurelio Picca, ad esempio, su intuizione e suggerimento di Elisabetta Sgarbi, torna in libreria con La gloria (189 pagine, 17 euro). Ed è una fortuna poterlo leggere ancora, Picca oltre che uno dei più bravi scrittori italiani – in pista da più di trent’anni, con una felice stagione creativa a cavallo del millennio, quando pubblicava per Rizzoli – è in assoluto uno dei più veri e intellettualmente onesti. Le sue pagine non vi fregheranno mai e queste sue ultime pagine, in particolari, sono all’altezza delle sue più riuscite. Non c’è uno spiraglio per banalizzare, minimizzare. Solo ripetuti affondi di uno spavaldo spadaccino della parola, uno dei pochi che riesce a essere ancora sovversivo.
Non quel pugile, gli altri
Lo sport che racconta Aurelio Picca è quello del rumore dei guantoni dei pugilatori, “angeli” (anche dalla faccia sporca) della boxe in palestre di periferia, è quello del calcio inteso come epica della Lazio (di cui Picca è tifoso storico, in buona compagnia fra scrittori, come Alessandro Piperno ed Emanuele Trevi) e in particolare del “messia” Chinaglia («Giorgio Nostro, rimpianto pure dai romanisti veri / perché sanno che un nemico così barbaro / e potente non l’avranno più. / Noi ti abbiamo amato e ti ameremo./»), comandante di una squadra irripetibile, selvaggia, olandese e granitica; lo sport evocato non è un passatempo, né un diversivo, è qualcosa di molto serio; è anche quello del tennis degli “antipatici”, si pensi a Djokovic e a McEnroe, che sono trasformati quasi in eroi greci. Da queste volume sgorgano lacrime e sudore. palpitano idee e passioni, scoppiano parole che sono cariche di slancio, fervore, euforia. Parole mai allineate, come quelle contro Muhammad Alì.
Ballava troppo, era troppo astuto, era troppo bello. In realtà, voleva il potere nero, la fine della segregazione razziale, ma è sempre stato un uomo bianco. Un bianco colmo di potere.
Ho amato i pugili finiti, suonati, spezzati in due, sfregiati. I Norton, i Frazier, i Griffith, i Bob Foster, i Tyson, i Foreman: brutti, sporchi, cattivi, froci, cannibali. Ma neri. Non Bianchi travestiti da Neri.
Nè ipocrisie né gentlemen
Celebra «l’urlo della battaglia» e la ferocia di Monzon, Aurelio Picca, con la sua prosa di estasi lirica, inneggia alla Gloria di Maestrelli e Mennea, a quella, sui pedali, di Gimondi e Pantani, ai cavalli del «vecchio galoppatoio di Tor di Valle a Roma» e a quelli di Siena, a piazza del Campo, «il più grande utero del mondo». Lo sport raccontato è quello senza ipocrisie, che sghignazza di ciò che è fasullo, che s’innamora di miti sghembi ed eccessivi, di magnifiche gazzarre e non dei fatturati, di protagonisti barbari e istintivi che non erano gentlemen ma capipopolo. Libro devoto e visionario, La Gloria restituisce un Aurelio Picca nel pieno del suo splendore, tra inquietudini e furori. Non sempre gloria fa rima con vittoria, sembra volerci dire. Ma prima della vittoria, serve altro, amor proprio, lealtà, dignità.
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