In “Non dico addio”, il più recente romanzo di Han Kang, Nobel 2024 per la letteratura, si raccontano, attraverso la parabola di due donne, i massacri e le torture perpetrati nell’isola sudcoreana di Jeju, tra la fine del 1948 e gli inizi del 1949. Tra realtà e dimensione onirica un episodio buio risalente alla metà del secolo scorso
Nelle storie di Han Kang il dolore, che si manifesta, perlopiù, prima sul piano psichico, quindi si trasforma in qualcosa di fisico, è posto al centro della narrazione, al pari di vite che al nostro sguardo sembrano essere spesso impossibili, perché estreme, vissute ai margini della società, in assoluti isolamento e prostrazione, non solo psicologica, appunto, ma anche, diremmo, efferatamente fisica, in quanto anima e corpo sofferenti sembrano diventare tutt’uno, essere inscindibili e portare quasi al limite dell’esistere i protagonisti, personagge e personaggi che, a loro modo, tuttavia alla fine trovano una pacificazione, una loro forma di riscatto e trasformazione che, in alcuni casi, sembrerebbe più appropriato definire transustanziazione.
La sofferenza sovrumana
Ciò avviene ne La vegetariana, La convalescenza, L’ora di greco; mentre in Non dico addio quest’esperienza di sofferenza individuale, abnorme, estrema, all’apparenza sovrumana, che si spinge fino a togliere quasi il respiro e a strappare con violenza l’esistenza a chi la vive, isolandolo, isolandola dal resto del mondo, come in Atti umani, trova eco in una tragedia collettiva. In atti umani, Han Kang evoca la carneficina consumatasi a Gwangju, nella Corea del Sud, nel maggio 1980, nel più recente Non dico addio (256 pagine, 20 euro), tradotto per Adelphi da Lia Iovenitti, i massacri e le torture perpetrati nell’isola sudcoreana di Jeju, tra la fine del 1948 e gli inizi del 1949.
Due donne immobilizzate e in crisi
Kang, inutile dirlo, è una narratrice di straordinaria bravura e giunge a narrarci l’eccidio di Jeju, facendoci immergere gradualmente in quello scempio di vite e corpi, attraverso la parabola discendente di due donne, Gyeong-ha e In-seon, due amiche, entrambe in profonda crisi esistenziale, emotivamente isolate dal resto del mondo e, fin dall’avvio della narrazione, immobilizzate da un accidente, l’una, In-seon, in un letto di ospedale a Seul, l’altra, Gyeong-ha, da una tempesta di neve a Jeju, dove si è recata su richiesta dell’amica per prendersi cura del suo pappagallino. Sarà proprio l’invalidità temporanea — In-seon si è tranciata le falangi, mentre intagliava del legno, e ora è sottoposta a cure estenuanti per non perderle; Gyeong-ha è caduta durante la tempesta di neve che l’ha colta appena arrivata sull’isola e giace a terra sotto una coltre bianca e spessa — a permettere loro di ricongiungersi in una dimensione quasi onirica, a tratti addirittura mistica e trascendente, per recuperare, attraverso i ricordi familiari della prima, gli incubi e le ossessioni della seconda, la memoria della strage di civili e prigionieri, compiuta alla metà del secolo scorso sull’isola sudcoreana.
Un Paese sconvolto
La scrittura di Han Kang, al tempo stesso concreta ed evocativa, in alcuni passaggi decisamente poetica, coglie e rende il più minuto dettaglio tanto della realtà oggettiva, quanto della dimensione onirica e impalpabile, in cui sono avvolti gli stati, i vissuti e i ricordi delle due amiche, per guidarci cautamente alla scoperta dei fatti che sconvolsero il suo Paese, da cui lei, proprio attraverso la stesura di Non dico addio, non intende congedarsi, per sottrarli all’oblio e restituirli all’universo (mondo) dei lettori, perché faccia altrettanto e, forse, si impegni affinché non se ne verifichino altri, e simili, nel nostro tempo e in quello a venire.
La scrittura è politica
È un romanzo politico Non dico addio?
Assolutamente. In primo luogo, proprio perché ci restituisce e consegna un evento storico poco noto in Occidente, di cui nella stessa Corea del Sud è stato difficile ed estremamente doloroso parlare e conservare memoria. In secondo luogo, perché, in realtà, la scrittura è di per sé stessa politica, in quanto alla sua origine vi sono sempre le alterne vicende degli umani che, anche quando isolati e solitari, quasi reietti dalla società, sono e restano animali politici, intrisi, nel bene come nel male, del contesto e dell’epoca in cui vivono.
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