Il ritorno della raccolta di racconti “Fammi un indovinello” di Tillie Olsen è l’occasione per rilanciare uno dei nomi più importanti della letteratura americana del secolo scorso. Impegnata politicamente, autodidatta negli studi, madre di quattro figli e passata attraverso molti lavori, Tillie Olsen è la voce delle donne, degli anziani e del proletariato; fa grande letteratura a partire dal prosaico e dall’analisi delle relazioni umane
Nelle manchette pubblicitarie dei quotidiani pubblicati alla fine del 1980 la casa editrice Savelli (espressione della sinistra extraparlamentare, che quattro anni prima aveva sbancato col romanzo Porci con le ali) annunciava: “Tradotta per la prima volta in Italia una grandissima scrittrice americana contemporanea”. Una volta tanto uno slogan commerciale non era bugiardo, esagerato, fuorviante. Quel libro, curato da Sara Poli, era Fammi un indovinello (160 pagine, 17,80 euro) di Tillie Olsen, da poco tornato in libreria grazie alla casa editrice Marietti, che rilancia la traduzione di Giovanna Scocchera, già apparsa nella precedente edizione pubblicata nel 2004 dalla benemerita e ormai scomparsa Giano.
Tra i grandi autori ebrei americani
Le opere narrative e saggistiche di Tillie Olsen – al pari di quelle di Grace Paley, Margaret Atwood e Alice Walker – permeate di coscienza femminista, in difesa della giustizia sociale, della classe operaia, dei diritti civili e delle minoranze, hanno ispirato tante scrittrici successive; un esempio? Alix Kates Shulman, autrice di Memorie di una reginetta di provincia e Il senso dell’amore. Storia di un matrimonio, entrambi editi da Einaudi. Alla fine degli anni Ottanta, quello di Tillie Olsen, nata Lerner, era uno dei nomi di spicco di Scrittori ebrei americani, formidabile antologia curata da Mario Materassi, pubblicato da Bompiani, ma da tempo fuori catalogo: pienamente cittadini degli States, Olsen e i suoi fratelli (Malamud, Singer, Bellow, i due stupefacenti Roth, Henry e Philip), con la comune radice dell’ebraismo declinata in modo differente, attraverso la società americana. Classe 1913, nata in Nebraska da ebrei russi che avevano trovato rifugio negli Usa, avrebbe assunto il cognome del marito, Olsen, dopo le nozze del 1944. Impareggiabile lettrice, in gioventù aveva presto abbandonato la scuola, continuando studi e letture da autodidatta; durante il maccartismo le costò caro il suo impegno nel sindacato e nel partito comunista, finendo anche in prigione dopo alcune manifestazioni; dopo i primi successi letterari, in poesia e in prosa su rivista, iniziò per lei un lungo periodo lontano dalle pubblicazioni. Le esigenze familiari (fu madre di quattro figlie) e lavorative (con le più disparate occupazioni) ebbero a lungo il sopravvento, almeno fino all’inizio degli anni Sessanta, quando fu pubblicato questo piccolo e potentissimo volume, che precedette la sua attività di docente universitaria in storici atenei statunitensi e, infine, la sua dimensione di venerata maestra.
Una madre, una figlia
In Fammi un indovinello – raccolta di appena quattro racconti perfetti, lodati anche da Alice Munro – Tillie Olsen fa grande letteratura, anche civile, a partire dal prosaico e dalle relazioni umane, dagli interni di abitazioni proletarie. Poco sperimentale, decisamente sul solco del realismo, la scrittrice americana – che scriveva di notte e in rari brevi momenti liberi – si affida, per le sue storie, a donne, lavoratori, anziani. La protagonista e voce narrante del primo racconto, Sono qui che stiro, è una madre lavoratrice che riflette sulla propria vita, è alle prese con le faccende domestiche, e ha un rapporto con la figlia a dir poco complesso. In appena quattordici pagine c’è tanta di quella vita e umanità, oltre che un involontario prontuario del genitore, da tener testa a romanzi ben più corposi.
«Finirai mai di stirare, mamma? Whistler ha ritratto sua madre su una sedia a dondolo. La mia dovrei dipingerla in piedi sull’asse da stiro». Queste è una di quelle sere in cui ha voglia di parlare e mi dice tutto e niente mentre apre il frigorifero e mette qualcosa da mangiare sul piatto.
È così carina. Perché poi voleva che venissi a parlare con lei? Cos’è che la preoccupava? Troverà la sua strada.
Disagio, alcol, razzismo
E che dire del racconto successivo, Ehi marinaio, che nave?
… un tempo erano stati giovani insieme.
A parlare, in modo impeccabile e tutt’altro che fasullo, è un vecchio marinaio piuttosto abituato ad alzare il gomito. Pensa, ricorda, fa conti, davanti a un barista a cui chiede ancora da bere. Con una prosa di grande efficacia visiva e, in generale, sensoriale, le parole messe una dietro l’altra da Tillie Olsen non mollano mai chi lo legge. Lo stesso si può dire della successiva short story, O sì, in cui una madre e una figlia, le sole bianche in una chiesa affollata da neri, partecipano al battesimo di un’amichetta della bimba
Sacrifici e rinunce
Il racconto eponimo che chiude la raccolta è un gioiello purissimo, che inquadra una coppia di lungo corso, quasi mezzo secolo, e in particolare la moglie, Eva. Col marito è totale il disaccordo su dove e come vivere il tempo che resta loro prima della fine. La donna non è più disposta, dopo averlo fatto per una vita, a reprimere desideri, a rinunciare, a sacrificarsi, a essere sempre a disposizione degli altri, a fare qualsiasi cosa solo perché sono altri a deciderlo, al posto suo. Una contrapposizione in cui tiene duro, ma che sarà l’inizio della fine, prima della depressione e di una grave malattia, di cui i familiari la terranno all’oscuro. Bellissimo il finale, in cui c’è una sorta di passaggio di consegne con la nipote Jeannie.
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