Non esiste relazione in cui non ci si sottoponga a questa creazione del rapporto, punto dopo punto. “Cucire un’amicizia – Conversazioni bibliche” dello scrittore Erri De Luca e del rabbino Marc-Alain Ouaknin parla d’amore, e di come il racconto crei contatti e cuciture. Una conversazione in tre parti, in cui si confrontano con altrettanti brani della Scrittura: la Torre di Babele, la manna caduta dal cielo, e un oscuro passaggio del libro del Qohelet
Immaginate il nulla, e in esso un libro, un numero e un racconto. La combinazione di questi tre elementi scatena la creazione, vince il nulla stesso, rivela Colui in cui il nulla era contenuto solo come una possibilità vinta dall’eterno.
Così, secondo il Libro della Formazione, un testo di esoterismo mistico ebraico, Dio crea l’universo. Proprio attraverso queste tre cose che, in realtà, sono una triplice manifestazione dell’Echad, l’Uno, dove ciascuno dei tre elementi definisce la natura degli altri due: la Legge, la Proporzione perfetta di tutte le cose, e la Narrazione. Così, la Legge è descritta come misura perfetta del creato, ma anche come narrazione; peraltro, quest’ultima è Legge a sua volta, perché è il racconto – quantunque talvolta poetico, iperbolico – l’unico a saper riferire quali siano le proporzioni del Trascendente.
Non basta dunque la norma, racchiusa all’interno di un matematico tabernacolo di perfezioni e di rapporti; occorre che questa bellezza sia raccontata, tramandata, consegnata. Il racconto diventa, accanto al suo contenuto, il vettore indispensabile alla relazione: non posso dirti che ti amo, se non te lo racconto!
E ci sono tanti modi di raccontare l’Uno e l’amore.
Questo libro racconta di questi modi di raccontare, narra proprio in cosa consista la bellezza essenziale del racconto; Cucire un’amicizia – Conversazioni bibliche (Giuntina, 105 pagine, 12 euro) parla d’amore, e di come il racconto crei contatti e cuciture, appunto, anche nonostante il logorio di certi tessuti storici e umani.
È un racconto duplice, reciproco, mediato da una relazione necessaria. Perché se è bello raccontare, è ancora più bello raccontarsi attraverso la narrazione del proprio sé, anche se indiretto; e conversare, poi, significa ritrovarsi a condividere insieme uno spazio e un tempo. Tant’è che si può scegliere di farlo anche in silenzio.
Ma Erri De Luca (con questo testo alla sua terza apparizione giuntiniana) e Marc-Alain Ouaknin decidono di farlo attraverso il suono di parole che a noi sono arrivate scritte, ma senza precluderci alcuna loro vibrazione. Certi argomenti sono specifici, certe parole conoscono la complicità degli addetti ai lavori, ma la familiarità e – soprattutto – lo scopo di questa conversazione, rendono le pagine più che appetibili: desiderate. Sembra che, ad un certo punto, ci si trovi ad origliare; ma è l’effetto iniziale, poi passa.
Conversazioni fortuite
Seduti al tavolino di un bar, ci sarà capitato di allungarci senza volerlo al suono di una conversazione vicina, una conversazione fortuita che – o per gli argomenti, o per i toni, o per i personaggi – ci ha incuriosito. Il collo si piega con millimetrica ma crescente inclinazione verso la fonte di quelle voci; gli occhi cominciano a cercare, nel riflesso di un bicchiere o di una porta a vetri, il volto e le espressioni di chi mi siede accanto, ad un tavolino in tutto uguale al mio.
Finalmente riesco ad individuare le due figure: da un lato un uomo semplicissimo, apparentemente ordinario; un vecchietto baffuto e sempre accigliato, ma senza darne l’impressione. Parla bene, appassionandosi senza accalorarsi troppo, e ogni tanto – quando l’interlocutore dice qualcosa che a lui piace – ammicca verso di lui in un’espressione di soddisfatta e condivisa puntualità, che sotto i baffi tradisce persino l’angolo ottuso di un accennato sorriso; significa che lui l’avrebbe detto certamente in un altro modo, ma è d’accordo. Sedutogli di fronte sta un uomo una trentina d’anni più giovane, decisamente più incline al sorriso, che oltre ai baffi ha anche la barba, curatissima, sagomata, lunga ma senza esagerazioni assolute. Anche lui, quando a parlare è l’altro, ha l’espressione di un votato e incuriosito interesse; il suo ammiccamento è indice di un atteggiamento educato alla dialettica del dialogo, con un che di ieratico di cui ancora devo comprendere la natura: fa leggeri movimenti su e giù con la testa, chiudendo gli occhi per pochi secondi, come se si sforzasse di visualizzare ciò che sta ascoltando e approvando.
Parlano un inglese corrotto dalle loro rispettive provenienze: il vegliardo ha una dizione più larga, quasi trascinata da un antico ed ereditato slang, ma con guizzi mediterranei che, in quella parlata, rivelano qualcosa di azzurro. L’altro non si fa molta fatica a capire da dove venga; le sue erre così arrotate, e i falsetti ritmici di approvazione, hanno un azzurro d’altro genere, qualcosa di leggermente più occidentale: sempre vicino al mare, ma francese.
I due sembrano parlare la stessa lingua solo quando, di quando in quando, si soffermano su termini per me incomprensibili: un idioma antico, una gutturalità in tutto straniera, nel suono e nella sua intenzione; parole che non capisco, e che mi ricordano la frase di un bambino che vidi una volta in un film: la maestra ci parlava, ma io non capivo le parole.
E poi, forse aiutato da questo provvidenziale ricordo, capisco che stanno parlando di ebraico, o di qualcosa in cui per forza c’entra l’ebraico. Approfitto del fatto che il cameriere si avvicini al loro tavolino, per chiedere se desiderino qualcos’altro. Con la scusa che anch’io voglio ordinare, questa volta mi giro: chiamo il cameriere ma fisso lo sguardo su di loro. Loro mi vedono, ricambiano il mio sguardo. Il francofono accenna un saluto; l’altro ride: ha capito tutta l’essenza della mia strategia; è un antico furbacchione, di un azzurro più che mediterraneo, forse partenopeo.
Insomma, in men che non si dica, mi trovo a partecipare – ancora da straniero – alla loro conversazione. Sto in silenzio e cerco di intercettare i loro argomenti così incalzanti, cercando di capire. Ma sono comunque insieme a loro, alla distanza di un tavolino, e questo basta perché, ascoltando, io possa dire di aver conversato.
Questo, così come l’ho ricostruito in un’overdose di immaginazione, è il senso che questo libro mi ha dato: la silenziosa e attenta partecipazione alla loro conversazione.
I due interlocutori
Invitati al dialogo da Ruben Honigmann, Erri De Luca e Marc-Alain Ouaknin si ritrovano dunque a conversare in merito al racconto, all’unica grande terapia capace di contrastare la galoppante crisi narrativa da cui, in un qualche modo, derivano oggi tutte le altre.
Le occasioni sono tre, come altrettanti brani della Scrittura: quello della Torre di Babele, la manna caduta dal cielo, e un’oscura pericope tratta dal libro del Qohelet che, più che un racconto, è un’esortazione, un consiglio sapienziale. Ma forse anche i consigli, perché vengano accolti, vanno raccontati: Tesoro, non giocare con le forbici; ho conosciuto un bambino che, giocando con le forbici, si è fatto la bua.
Il retroterra di Erri De Luca è quello di un attivista politico, un operaio divenuto esegeta, sentinella del mattino che, prima di andare a spezzarsi la schiena in fabbrica, consacrava la prima ora della giornata allo studio dell’ebraico. Uno di quelli che, animati da una passione profetica, hanno imparato cose importanti per vie alternative a quelle accademiche: hanno conosciuto in senso pienamente biblico, attraverso un rapporto carnale con la parola, senza platonismi d’esami o corsi. Per De Luca, la Bibbia non è letteratura, perché non cerca di inglobare a tutti i costi il lettore nella narrazione, né di impacchettarsi all’interno di generi letterari che possano in qualche modo trovare consensi: essa parla e basta, senza pretese d’essere ascoltata o accolta; questo elemento, così antiletterario, è proprio quello che ha colpito Erri De Luca, è stato il suo personale colpo di fulmine nei confronti di un amore inespugnabile all’avidità delle ideologie e degli insetti.
Marc-Alain Ouaknin ha, invece, una storia di studio più formalmente tale; figlio di rabbino e rabbino egli stesso, indaga la Scrittura con lo spirito dell’uomo che, ponendo domande a Dio, si aspetta da Questi risposte che non prescindano la molteplicità del reale. Nelle sue interpretazioni del Sacro, Ouaknin presuppone (internamente ed esternamente al testo) la partecipazione di una realtà universale che lo circonda, un’epifania di culture che non sono necessariamente differenziative ma, al contrario, complementari; le sue interpretazioni invitano gli altri uomini a far parte del testo, come se ne fossero anch’essi elementi costitutivi. E la sua voce, educata a parlare di Dio, sa cedere spesso il posto ad altre voci, come altrettanti segni che possano abbellire le lettere della Torah. Ouaknin è un masoreta del vivere comune, che mette puntini qui e lì, per non dimenticare la ricchezza che lo circonda.
Questa è, in sintesi, l’alchimia di questo incontro; questo è il dietro le quinte della conversazione, quando abbiamo più o meno tutta la chimica degli elementi e non sappiamo ancora cosa accadrà dentro la provetta.
Il senso di questo incontro
Inutile qui, ma soprattutto inopportuno per coloro che vorranno riservarsi la scoperta di una meravigliosa lettura, rivelare il contenuto delle tre parti dell’unica conversazione. Fondamentale, invece, rivelarne fin da subito il senso, il significato di una cucitura che può essere opera umana di fabbricazione o, al meno, un semplice rammendo. In entrambi i casi il concetto di cucitura è perfetto, soprattutto considerando che, nell’ebraico chibur, la parola che indica la cucitura è quella dalla cui radice derivano termini come chaver (amico), chevrà (società, gruppo), eccetera. Tutte parole che si trovano ad evidenziare una qualche unione tenuta insieme da un filo comune. Penso all’espressione ricucire un rapporto (e all’attenzione che ci vuole nel trovare la stoffa giusta per applicare una toppa, e il giusto ago, che possa cucire senza ferire), o a quella canzone meravigliosa – La costruzione di un amore – del nostro Fossati.
Penso, insomma, a quanto – sostanzialmente – non possa esistere una relazione in cui, da una parte e dall’altra, non ci si sottoponga a questa poiesi, a questa creazione del rapporto, punto dopo punto, nodo dopo nodo.
Erri De Luca e Marc-Alain Ouaknin ce ne parlano prendendo in esame i tre brani pocanzi accennati, specificandone i cromosomi semantici, ma non arrestandosi ai linguismi. Procedendo da questi, che, peraltro, ad un certo punto si palesano come necessari, i due interlocutori spaziano lasciandosi trasportare, dall’ingegnoso spiro delle interpretazioni, a tutti quegli elementi capaci di cucire, ricucire, creare; o meglio, continuare l’opera della creazione.
Così, ad esempio, nella narrazione babelica, si evince il dramma di una frenesia incontrollabile e indiversificata che, con troppa ingenua superficialità, continuiamo a chiamare progresso; dove l’intervento separativo di Dio, ad un certo punto, non mostra la necessità di dover dividere ma, separando gli uni dagli altri, pone le condizioni al dover necessariamente cercare una relazione che non parta dal dover fare tutti la stessa cosa, ma dal doversi riconoscere nella propria diversità, anche se questo costa una fatica inimmaginabile e talvolta drammatica. La creazione parte da tante separazioni, come mille sono i venti di una tempesta, certo; capace di portare la nave da qualche parte, anziché costringerla alla bonaccia di un’abitudine mortale, come quella di parlare, pensare ed essere tutti allo stesso modo.
Nel secondo racconto, dove piuttosto che di un’azione che parte dal basso, si parla di qualcosa che scende dall’alto, si comincia già ad identificare in questa implicita contiguità di senso opposto, la tessitura, la cucitura che rende i vari brani biblici come elementi di diversità eppure tutti meravigliosamente messi insieme dalla necessità di volersene coprire. L’immagine che mi raggiunge, a questo punto, è quella di una coperta di lana realizzata mettendo insieme quadrati colorati tutti diversi, tutti realizzati da persone diverse, eppure adesso divenuti un’unica e calda coperta, tutta colorata della sua originaria diversità.
Anche qui la fatica gioca un ruolo meraviglioso, pedagogico: ogni israelita deve andarsi a procurare la manna, provvidenzialmente caduta fuori dall’accampamento; i doni di Dio non ti tolgono mai la responsabilità della fatica, della scelta, neanche quando cadono dal cielo. Man hu? Che cos’è? Ci si nutre di domande, e mai di risposte; ci si sfama dei propri perché, senza sapere di cosa siano fatti. Come quando un piatto delizioso ti viene servito a tavola, e lo gusti, e te ne rallegri intimamente come di una consolazione, ma non sai com’è fatto, con quali ingredienti sia stato preparato: ti è caduto dall’alto e lo stai mangiando; chiedi come sia stato cucinato e cosa ci sia dentro, ma in effetti sai che ti basta mangiarlo e goderne. Ha proprio il sapore che cercavi tu, anche senza conoscerlo ancora! È la caratteristica di tutto ciò che cade dal cielo, e che nella tua bocca assume il sapore di ciò che può nutrirti e, allo stesso tempo, darti piacere. Proprio come la parola.
E poi arriva lui, bello bello, contrassegnato dalla sua indecifrabile criticità. Il Qohelet, con tutte le sue ansie, con lo slancio delle sue esortazioni, destinate ad infrangersi come onde sugli scogli, all’apparire di quella vanità che, in un’interessante intuizione, ha per De Luca il sapore dello spreco. Un racconto non racconto, ma raccontato dai due interlocutori che, nello scambio delle loro interpretazioni, si illuminano reciprocamente come quando due bambini, giocando a mandarsi da lontano messaggi notturni con una lampadina tascabile, non è detto che riescano a decriptare ogni parola, ma sanno che quella parola illuminata, e intermittente di luce, è per loro e viene da chi c’è di fronte a loro, seppur separato da una significativa distanza. Quel gettare il pane sulla superficie dell’acqua, accompagnato dalla promessa del suo ritrovamento, che a poco a poco comincia ad assumere il valore nuovo di un ritrovamento, quello di cui facciamo esperienza attraverso il miracolo di certe restituzioni (anche di senso!), capaci di raggiungerci anni dopo, ma sempre in modo puntuale. Per alcuni è karma, per altri provvidenza; per altri ancora è semplicemente la memoria delle cose e delle parole, che restituisce la propria eco nel tempo e nello spazio, creando la storia. Una storia dove, ad un certo punto, entra in gioco anche un tassista! Ma per riderne anche voi dovrete leggere.
La porta dell’Uno
Ciò che maggiormente colpisce, al di là delle diverse e complementari interpretazioni, accompagnate da racconti personali e aneddoti che sono narrazioni tra le narrazioni, è soprattutto il clima di intesa che si crea tra gli interlocutori nel momento in cui, scambiandosi punti di vista e percezioni reciproche, si accorgono di quella novità perenne che è la condivisione; qualcosa che, una volta creata, fa notare a Qualcuno come sia cosa molto buona. La plusvalenza di una bontà che non si trova ancora nelle altre cose create, ma solo nell’uomo, perché è appunto capace di raccontarsi e di entrare in relazione.
E in questo, è avvincente e consolante la spiegazione etimologica che Marc-Alain Ouaknin – il quale, a questo punto, tradisce splendidamente la sua filosofica affezione a Levinas – attribuisce alla parola ‘echad, che significa uno. Ma non nel senso esclusivo che tante volte gli diamo noi, dove, appunto, se c’è uno non ci sono gli altri. La parola ach, fratello, è strettamente imparentata con ‘echad, con l’Uno, come a dire che non può esserci unità senza un fratello con cui condividerla, senza qualcuno che, posto dinanzi a te come uno specchio, ti permetta di riconoscere la tua unicità e la sua. E a questo, perché dal fratello si passi all’Uno, si aggiunge la lettera dalet, che anche graficamente ricorda una porta con tanto di maniglia: una perifrastica morale, qualcosa che dev’essere aperto! Senza aprirti agli altri, senza donarti a qualcuno, fosse anche nell’estasiato entusiasmo di un racconto, non puoi aver parte all’Uno; né il fratello, senza che tu l’abbia fatto entrare a casa tua, potrà essere Uno insieme a te. Questo il più bello degli ammiccamenti di Marc-Alain Ouaknin che, con questa spiegazione, fa l’occhiolino all’ateismo di De Luca, lasciando intendere che l’Uno non ha bisogno del nostro consenso per esistere, per esserci, per aprire le sue porte e farsi fratello. Erri De Luca, che certo sa cogliere queste sfumature e non rimane indietro, risponde con una ghematria immediata, spiegando che il valore numerico dell’Uno (‘echad) è lo stesso della parola Amore (‘ahavà).
Ecco, il testo è fatto tutto così, con questi botta e risposta appassionati e ardenti, con questo mutuo venirsi incontro attraverso l’aggiunta di particolari al particolare: non puoi leggere questo libro senza vederli mentre parlano, mentre conversano, mentre raccontano.
L’effetto della cucitura, per cui è stato scelto un filo dorato che è la Scrittura, finisce per agganciare anche te, che sei ancora seduto al tavolino del bar sforzandoti di carpire ogni strana parola che quei due pronunciano a meno di un metro. E poi, quando meno te lo aspetti, il cameriere ti porta un caffè che non avevi ordinato.
«È offerto dai signori» precisa il ragazzo, indicando Erri e Marc-Alain. Tu ti giri, li guardi, li ringrazi e poi chiedi perché.
«Grazie per aver partecipato alla nostra conversazione!».
«Grazie a voi… ma… non che c’abbia capito molto…» rispondi con un po’ di imbarazzo.
«Non si preoccupi! Che bello non capire nulla insieme! Se si capisse tutto, ci sarebbe il sospetto che si stia insieme per condividere una risposta. E invece così sappiamo che, condividendo un perché, siamo insieme ancora in modo autentico, incondizionati. Cuciti da un comune cammino».
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