La ricerca del riconoscimento della musica come espressione collettiva ed elemento pacifico è al centro di “Le dedico il mio silenzio” che Mario Vargas Llosa ha annunciato come sua ultima opera narrativa. Toño Azpilcueta è il protagonista strampalato e sognatore, un “non eroe” alla don Chisciotte…
Adesso mi piacerebbe scrivere un saggio su Sartre, che è stato mio insegnante quando ero giovane. Sarà l’ultima cosa che scriverò.
Con queste parole, contenute in una pagina di poco più di dieci righe, poste oltre la conclusione dell’ultimo romanzo pubblicato, il grande scrittore Mario Vargas Llosa, già premio Nobel per la letteratura, si congeda dal vasto e variegato pubblico di lettori che da circa sessant’anni ha amato il suo immaginario letterario e si è lasciato affascinare dalle sue storie.
Non si può che partire da questa circostanza straordinaria — dalla fine di un’epopea narrativa che ha fatto la storia della letteratura contemporanea latinoamericana e, verosimilmente, anche di quella in lingua spagnola — per raccontare e commentare Le dedico il mio silenzio (248 pagine, 20 euro), edito in Italia da Einaudi con la traduzione di Federica Niola.
Libro che mescola romanzo e saggio, Le dedico il mio silenzio può essere considerato un’opera meticcia attraverso la quale Mario Vargas Llosa celebra la música criolla, ovvero quella miscela di valzer europei con influenze andine e africane, diffusasi in Perù nel corso del Novecento. È un atto d’amore nei confronti del suo paese e della sua complessa identità, che pone al centro del racconto Toño Azpilcueta, protagonista strampalato, sognatore e utopista (persino un po’ “tocco”, come verrà definito nel corso del racconto), caratterizzato da contraddizioni, ossessioni e fobie. Suddiviso in 37 capitoli, il libro alterna la vicenda di Toño Azpilcueta a una piccola agiografia dei vals, ripercorrendone le origini, le fasi della diffusione in Perù e soffermandosi sui pionieri, gli eroi e le figure di spicco che li hanno resi celebri.
La telefonata e il chitarrista sublime
L’incipit del racconto è una telefonata che Toño riceve, inaspettatamente, dal celebre scrittore José Durand Flores, il quale lo invita ad assistere a un’esibizione di Lalo Molfino, un chitarrista a lui sconosciuto. Si tratta di un evento eccezionale per almeno due ragioni: la prima è che Toño, pur essendo il più autorevole conoscitore della musica peruviana grazie alla sua incessante produzione giornalistica, non ha mai sentito nominare il musicista; la seconda è che a scomodarsi per lui è un illustre intellettuale, stranamente interessato a un lavoro che, rimasto ai margini del mondo culturale di spicco, ha trovato spazio solo in pubblicazioni minori, costringendolo a una vita ai confini dell’anonimato e della precarietà.
Al concerto, Azpilcueta si trova di fronte a un chitarrista sublime, un genio della musica, che, pur essendo capace di emozionare profondamente il pubblico, resta inspiegabilmente sconosciuto. La sua figura lo affascina tanto da diventare quasi un’ossessione, un’ossessione che crescerà ulteriormente quando, desideroso di incontrarlo, scoprirà dalla cantante Cecilia Barraza — amica comune di cui Toño è segretamente innamorato e di cui, probabilmente, lo è anche il musicista — che Lalo è morto in circostanze misteriose. Questo evento traumatico darà a Toño il desiderio di dedicare un libro a Lalo Molfino e all’impatto che il giovane chitarrista ha avuto sulla música criolla.
L’indagine e il viaggio
Inizia così un’indagine personale, propedeutica alla stesura del libro, resa possibile grazie al supporto economico del compadre Collau, durante la quale Toño cercherà di scoprire di più sulla storia e le radici di Lalo Molfino. Un viaggio che lo porterà sulla costa settentrionale, più precisamente a Puerto Eten, nella speranza di saperne di più su questa figura enigmatica e di capire le origini di un talento segnato da un carattere impossibile e da un destino tragico.
Ben presto, però, la ricerca di Azpilcueta si trasformerà in qualcosa di più ampio. Il racconto della vita di Molfino diventerà un pretesto per sviluppare una tesi più ambiziosa sull’impatto che la música criolla, in quanto espressione artistica che sintetizza lo spirito meticcio del Perù, ha avuto e potrà avere sull’unità nazionale; una musica che unisce classi sociali e culturali distanti e capace di portare avanti una rivoluzione in grado di abbattere pregiudizi e ostacoli.
L’opera di Toño Azpilcueta, che una volta pubblicata prenderà il titolo di Lalo Molfino e la rivoluzione silenziosa, più che raccontare la storia del giovane chitarrista, che diventerà quasi marginale, finirà per contenere questa tesi, divenendo un manifesto utopico del destino del Perù. Un paese che affonda le radici nella mescolanza e nella huachafería (ovvero nella pacchianeria), tratto distintivo della società peruviana a tutti i livelli, dalle classi popolari all’élite, e visione del mondo che celebra l’emotività, la passione e l’intuizione, e che si manifesta in ogni angolo della vita quotidiana, dall’arte alla politica.
Un’utopia culturale
Opera densa, intrisa di significati e punti di vista differenti, ricca di sfumature e anche di contraddizioni, Le dedico il mio silenzio si snoda intorno a una serie di temi: uno tra tutti è la ricerca di un’utopia culturale e il riconoscimento della musica come espressione collettiva e elemento pacifico — nato spontaneamente dal popolo, al contrario della religione cristiana o della lingua spagnola che furono imposte al continente latinoamericano — per il raggiungimento di un’unità nazionale.
Per comprendere appieno il significato del romanzo, è cruciale contestualizzarlo nell’anno 1992, periodo che segue l’assassinio di María Elena Moyano, figura simbolica nella lotta contro il terrorismo, e la cattura di Abimael Guzmán, leader e fondatore di Sendero Luminoso. Un anno che riflette un periodo di grande tensione e violenza, caratterizzato dalla presenza del gruppo terroristico in Perù. Ed è in questo contesto che Vargas Llosa, attraverso la tesi del suo protagonista, assegna alla musica il ruolo di potente strumento di riconciliazione e di unificazione morale.
A incarnare questo idealismo e, con esso, l’utopia della portata rivoluzionaria del vals, è proprio il personaggio di Toño Azpilcueta, espressione di un sogno forse irrealizzabile che ricorda la figura di Don Chisciotte: un “non eroe” che si batte per una causa destinata al fallimento. Toño, come Don Chisciotte, è affetto da una sorta di follia idealista (e forse anche autodistruttiva) che lo spinge a perseguire l’utopia, nonostante l’indifferenza della società e dell’élite culturale di cui, per tutta la vita, ha desiderato far parte, e nonostante le difficoltà che si frappongono alla realizzazione del suo desiderio.
Eroico e ridicolo
Ed è in questo possibile parallelismo che emerge l’ironia di Mario Vargas Llosa: Toño è tanto eroico quanto ridicolo nella sua speranza di credere nel potere trasformativo della cultura. Nel corso del libro vedremo il suo libro, il suo lavoro, trasformarsi quasi in una lotta contro i mulini a vento: nell’ostinato desiderio di essere ascoltato, dopo aver ascoltato altri per tutta la vita.
Parallelamente a questa somiglianza, a questa possibile citazione, si pone poi il personaggio di Lalo Molfino, il chitarrista misterioso e geniale, destinato a restare sconosciuto e incompreso. Come un controcanto, la sua figura presenta caratteristiche opposte a quelle di Toño; ciò emerge soprattutto nella contrapposizione tra la sua visione della música criolla: mentre per Toño la musica rappresenta un mezzo di unione sociale, per Lalo Molfino rimane un atto individuale e solitario.
Ed è probabilmente in questa contrapposizione — così come nell’evoluzione del destino che il libro di Toño Azpilicueta vivrà — che Mario Vargas Llosa, come già in altre sue opere, metterà in discussione l’idea stessa di utopia, mostrando come il desiderio di un cambiamento radicale e positivo possa incontrare limiti talvolta insormontabili.
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