“La vita di Arsen’ev” è un lungo apprendistato all’addio alla madre patria di un nobile russo che somiglia tanto all’autore, Ivan Bunin, premio Nobel, gran classico riscoperto. Un romanzo d’atmosfere e psicologie più che di trame in senso stretto, anche se costruisce la nostalgia per un tempo e un luogo perduti attraverso storie, aneddoti e circostanze della vita del protagonista esule…
Ivan Bunin chi? Nel giro di pochi anni il già sublime e ancora imberbe Nabokov avrebbe potuto affermarlo: prima discepolo con espliciti debiti di riconoscenza, poi – dopo averlo conosciuto di persona e dopo il sorprendente Nobel a Bunin – irritato letterato che mal sopportava l’ex idolo. Un rapporto che si guastò reciprocamente – Bunin bollò Nabokov come noioso e non vero, non autentico – tra livore e schermaglie. A differenza dell’autore di Lolita, era apprezzato da Varlam Šalamov che, nel 1943, fu arrestato per la terza volta e condotto in un gulag, anche per – era una delle accuse – che nel 1943 fu arrestato proprio per aver definito Bunin, inviso all’Urss, «un classico scrittore russo». Ivan Bunin chi? Adelphi e Corbaccio, Sellerio e Voland l’hanno proposto in edizioni pregevoli, forse senza troppo riscontro tra i lettori. Ed è un peccato, perché siamo in presenza di uno scrittore raffinato, erede e protagonista della grande tradizione russa, al di là del Nobel di cui fu insignito esule dalla Russia comunista, a 63 anni, nel 1933, molto tempo dopo la prima edizione, quando i più pensavano toccasse a uno degli scrittori russi per antonomasia, quel Lev Tolstoj che lo vide assegnare a tale Sully Prudhomme. Ivan Bunin chi? Figlio di aristocratici decaduti, un’infanzia isolata e a contatto con la natura, in gran parte autodidatta e senza studi universitari, s’abbeverò in fretta alle sorgenti di Gogol, Lermontov e Puskin, e ai primi del Novecento iniziò l’attività di critico teatrale e a pubblicare versi, lodati addirittura da un maestro come Aleksandr Blok (qui un suo ritratto). Già negli anni Dieci del secolo scorso le prime prove narrative lo consacrarono fra i maggiori prosatori del tempo, immediato, realista, semplice, lontano da qualsiasi avanguardia, piuttosto vintage se si pensa al modernismo che conquistava – specie in salsa anglosassone – quel continente chiamato letteratura. Grande viaggiatore in gioventù, antibolscevico, abbandonò la madre patria nel 1920, rifugiandosi in Francia dove visse fino alla fine dei suoi giorni, rifiutando di trasferirsi negli Usa, continuando a scrivere della Russia che rimbombava nella sua memoria. In piena seconda guerra mondiale non esitò ad ospitare Alexander Lieberman, ebreo, e la moglie Stefania.
La prosa lirica
Ivan Bunin – tornato definitivamente in auge in patria da qualche decennio, dopo la disfatta del regime sovietico – sta adesso benissimo nel catalogo di un progetto editoriale non omologato e non scontato come quello di Medhelan, che ha riproposto in una nuova edizione La vita di Arsen’ev (330 pagine, 26 euro), con la vecchia traduzione di Ettore Lo Gatto, slavista principe, e una nuova puntuale introduzione di Andrea Tarabbia (qui abbiamo scritto del suo Il peso del legno). Al pari de Il signore di San Francisco, La vita di Arsen’ev è da considerarsi un classico, che fu pubblicato inizialmente a puntate, concludendosi proprio nel 1933, anno del Nobel. Dentro ci sono i gelidi inverni russi e certi rimpianti che l’autore condivide col protagonista Arsen’ev, ci sono osservazioni, sensazioni, riflessioni, legate a singoli episodi dell’esistenza di un uomo russo, ricordi di avvenimenti scritti a distanza di parecchio («Un’intera vita è trascorsa da quel tempo») rispetto a quando sono accaduti; e scritti in una prosa che sembra comporsi di versi per quanto è musicale e ritmata, del resto il nostro aveva, prima di ogni altra cosa, pubblicato poesie, e poeta era rimasto sempre nell’anima.
Quanti possedimenti abbandonati, quanti giardini trascurati nella letteratura russa e con quanto amore sono sempre stati descritti! In forza di che cosa erano così cari all’anima russa e consolanti l’abbandono, i luoghi disabitati, lo sfacelo?
Passione smisurata per la letteratura
La vita di Arsen’ev è il prezioso esercizio di memoria di un cinquantenne nato nobile, molto simile a Bunin, alle prese con il sé fanciullo e ragazzo, con la passione smisurata per i classici della letteratura – Omero e Cervantes – con l’ammirazione per Puskin e per Tolstoj, che non abita molto lontano da lui, con le alzate di gomito del padre e con l’arresto di un fratello sovversivo («Mi occorse poi non poco tempo per superare la nuova infermità della mia anima»), fatto scovare da un delatore.
A quanto pare più di ogni altra cosa mi colpì il fatto che dovemmo entrare nella sala d’aspetto di terza classe, dove mio fratello, sotto la sorveglianza dei gendarmi, aspettava la partenza del treno, non osando più sedere insieme con la solita gente per bene ch’era libera, mentre egli era ormai privo della facoltà di disporre di se stesso, della possibilità di bere il te o mangiar pasticcini insieme agli altri.
È un buonissimo compendio dell’arte letteraria secondo Ivan Bunin, questo suo romanzo di lunga gestazione e di sentimenti profondi, d’atmosfere e psicologie più che di trame in senso stretto, anche se la maggior parte dei brevi capitoli si nutre di storie, aneddoti e circostanze dell’esistenza del protagonista, finendo per scrivere dell’uomo e del paesaggio, di un tempo perduto, di nostalgie e passioni.
Altro che minore…
È un lungo apprendistato all’addio, quel che si racconta davvero in queste pagine di grande letteratura: in Russia ben presto non ci fu più posto per i nobili delle aree rurali, vecchi arnesi fuori tempo massimo. Dettagli minimi e macro eventi storici convivono grazie all’abilità narrativa di uno scrittore russo che non merita affatto d’essere annoverato fra i minori: poetico, maestoso, viscerale nei confronti della terra natale, immerso fino al collo nell’anima russa. Un altro amico da aggiungere alla schiera di ogni buon lettore che si rispetti…
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