Partire è un po’ morire, l’impetuoso monologo di Ivana Sajko

Addii, partenze e separazioni sono “Piccole morti” che danno il titolo a un romanzo della croata Ivana Sajko, storia di un uomo sopravvissuto, ma forse mai vivo. Nel viaggio in treno del protagonista, che si lascia alle spalle fallimenti, sconfitte e guerre, la riflessione su un’Europa non solidale, sul dramma delle migrazioni, delle diseguaglianze sociali, delle scorie della pandemia

Sul treno che mi porta a Berlino il tempo non esiste, sebbene io viaggi in avanti, vado indietro…

Pochi, pochissimi punti. Rare, rarissime volte vanno a capo le pagine di questo libro, di questo monologo con sole virgole, che sembra chiedere una lettura tutta d’un fiato, affamata, senza riserve e senza tregua, impetuosa. Su un vagone, in viaggio dall’Adriatico alla capitale tedesca, il personaggio che parla è un uomo di varie età e di mille partenze e separazioni, piccole morti, non sempre tristi, spesso necessarie. Proprio Piccole morti (114 pagine, 16 euro) è il titolo di questo romanzo speciale di Ivana Sajko, che Elisa Copetti ha tradotto dal croato ed Alice Parmeggiani ha curato, pubblicato da Voland. Il viaggiatore ha alle spalle una carriera non esaltante da giornalista («articoli di giornale che descrivono solo la miseria umana e per questo vengono pagati altrettanto miseramente»), il sogno irrealizzato d’essere uno scrittore, un amore finito e, ancora più a ritroso, un’infanzia segnata dalla guerra nei Balcani e dalle violenze del padre alcolista ai danni della madre, poi fuggita in Germania. Ivana Sajko – drammaturga che ha sparso a piene mani “tracce” teatrali nei capitoli – ha dato vita e voce a un personaggio splendido, perché comunque sempre proteso verso nuove sfide, ma soprattutto perché apatico e vulnerabile.

L’illusione di una vita nuova…

Ricordi, non solo dolorosi ma anche gioiosi, e stati d’animo di questo viaggio – che è un’ennesima ripartenza e la ricerca di un posto nel mondo, forse l’illusione di una vita nuova e migliore – finiscono per allargarsi a riflessioni eminentemente politiche e attualissime, sul fenomeno delle migrazioni, sull’Europa poco solidale (anche con i suoi Balcani), sulle diseguaglianze sociali, sulle derive xenofobe, sugli strascichi della pandemia del Covid-19, sul sentirsi raramente al posto giusto, sul non appartenere a nessun luogo. È un testo densissimo, Piccole morti di Ivana Sajko, intimo, ma che sa essere più ampio, collettivo; strutturato con lunghi eleganti periodi, che si nutre di parole scelte con cura, le stesse che il protagonista appunta su un quadernetto.

… e la morte dell’amore

… scrivo nell’unico modo che conosco, girando nei meandri di ciò che mi fa più male e per cui non c’è aiuto.

Ci sono miserie e silenzi in questo breve e affascinante romanzo, che straripa di lucidità e intimità. Ci sono flashback e presente che si rincorrono nelle parole e nei pensieri del giornalista che, dialogando con se stesso, elabora luttuose separazioni e metabolizza fallimenti, rischiando, come il padre, di farsi compagnia con e perdersi nell’alcol, cedendo alla solitudine e all’incomunicabilità, alla difficoltà di tessere relazioni sociali decenti: sopravvissuto a tante piccole e grandi morti (quelle delle guerre, quelle fra i migranti, quella dell’amore), ma forse mai davvero vivo. Un romanzo, quello di Ivana Sajko, sconcertante, inquietante, con cui è stimolante fare i conti. E da tornare a rileggere, conclusa la prima lettura.

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