Torniamo su “L’odore dei cortili” di Giuliano Brenna (ne abbiamo scritto qui), con un intervento complementare, costituito da alcune annotazioni, osservazioni oblique su aspetti specifici del romanzo che colpiscono: dal senso dell’olfatto agli squarci onirici, alla voce narrante
Nel respiro oscuro della casa crollata, come un bagliore di speranza, si percepisce il soave sentore dei gelsomini, i quali, nel loro incessante cammino, si sono spinti fin dentro quel decadimento accendendolo di piccoli fiori bianchi come fuochi fatui, a testimoniare un abbandono che non è definitivo, ma presagio di ritorno [cap. 23, pp. 247-48]
Gli odori. Il romanzo (264 pagine, 17 euro) di Giuliano Brenna, edito da Il ramo e la foglia si apre con L’aroma del tiglio (titolo del cap. 1) che si spande nella casa di Serena, la madre del protagonista, e termina col profumo del filadelfo nel conclusivo cap. 24 (Alto de São João, il filadelfo) davanti alla lapide della donna. Un evidente percorso, un cerchio che si chiude non per ricominciare identico, ma per slanciarsi, andare oltre. A ricordarci quanto sia importante l’olfatto nel romanzo ci sono inoltre i capp. 4 (Il frangipane), 16 (L’odore di urina nei cortili) e 23 (L’odore dei cortili). Ma al di là dei titoli, odori, aromi, profumi… marcano, connotano (ora sbrigativamente accennati in una manciata di parole, ora con più ampio spazio) luoghi, interni o esterni, a volte persone, in ogni caso momenti rilevanti di gran parte della narrazione. Immagino per la particolare, riconosciuta capacità di evocare ricordi, emozioni, apprendimento… memoria. Colpisce che il titolo del cap. 23 (L’odore dei cortili), esteso all’intero romanzo, nasca per sottrazione dal cap. 16 (L’odore di urina nei cortili), costituendo in effetti un passaggio, un’evoluzione dalla situazione sgradevole, di disagio, cui è legata nel capitolo 16, a una di apertura e di fiducia. Il che mi pare confermato dal fatto che, smentendo quanto ho scritto inizialmente, non è il filadelfo l’ultimo odore a essere… evocato, ma il successivo profumo carnale ed etereo della tuberosa (già apparso in tutt’altro contesto) offerta da Nuno a Mattia in via Avenida Alfonso III.
Questa è l’acqua
Mattia si tappa il naso, chiude gli occhi e si accovaccia sul fondo della vasca, ora il mostro lo guarda con un un’aria triste, “non lasciarti andare Mattia”, sembra volergli dire, “torna in superficie, qua puoi venire a trovarmi ogni tanto… ma se vuoi restare…” e intanto i tentacoli lenti e silenziosi si stanno srotolando verso di lui [cap. 19, p. 212]
I sogni e l’acqua. Il sogno (l’unico) di Serena, il primo nel quale si imbatte il lettore, prefigura oscuramente e nettamente al tempo stesso che ciò che accadrà il giorno dopo non sarà quanto da lei auspicato. Quello di Martim (colui che si appresta a divenire il capitano Green) invece a circa metà del romanzo rende in immagini la statica, dolorosa consapevolezza di un personaggio condannatosi a una sorta di immobilità emotiva. Gli altri sogni, ben sei, sono tutti fatti da Mattia, il protagonista, e vanno diventando sempre più articolati man mano che accompagnano e rendono, col linguaggio simbolico tipico dei sogni, il passaggio (ancora una volta) da una condizione di passiva, soverchiante sofferenza a una graduale, nuova disposizione verso l’esistenza e le relazioni umane e che passa per lo… sgretolamento e l’allontanamento da ciò che si è stati.
Se le prime, infantili forme espressive dei turbamenti del protagonista vengono affidate al disegno, la successiva traduzione in immagini e narrazioni del mondo intimo di Mattia affianca all’elemento onirico in senso stretto anche un’esperienza “concreta” qual è quella del rapporto con l’acqua. E ciò fin dal primo sogno che (come quello fatto dalla madre) riprende immagini della fiaba preferita (accadrà di nuovo nel sogno finale): ad un certo punto Mattia si immerge nel mare e la serenità iniziale lascia il posto a un senso di minaccia e di terrore, che si ripresenterà qualche anno dopo e più volte nella reale, fisica esperienza delle sue nuotate e immersioni in piscina. Come per i sogni, anche in questo caso, il protagonista giungerà al superamento di un’angoscia (verosimilmente) indecifrabile se slegata dalla dimensione emotivo-psicologica del suo vissuto.
La staffetta del ruolo esegetico
Per tenere fede alla promessa di cercare di proteggere sempre la madre, l’unico modo che gli resta è portarla per sempre dentro di sé, ma essendo lei indissolubilmente legata al padre, porterà in sé anche quest’altra figura mancante. Sarà figlio, madre e padre, in una voragine di assenze talmente presenti da rischiare di esserne sopraffatto e inghiottito. [cap. 5, p. 45]
Il narratore-guida. A raccontarci L’odore dei cortili è una voce narrante che non appartiene a nessuno dei personaggi e che conosce, e racconta all’occorrenza, parti del loro passato, dei loro pensieri, stati d’animo. Talvolta sente anche il bisogno di “tradurre” per noi lettori… non il senso dei sogni, delle fantasticherie dei personaggi, né il nesso con le fiabe, con i libri citati o gli oggetti che riappaiono nelle vicende, interiori ed esterne, dei personaggi, no, niente di tutto questo. Direi che è piuttosto il bisogno di esplicitare sul piano psicologico, talvolta freudiano, il corrispettivo di quanto Mattia vive-subisce-suscita… irretito com’è in un’esperienza, una concatenazione di esperienze, tanto più grandi di lui: una particolare configurazione dello schema padre-madre-figlio in quello specifico contesto spazio-temporale. Un ruolo esegetico che nel corso del romanzo sembra passare poi a qualche personaggio: a Rui ad esempio, lo zio di Mattia, alla fine del cap. 17, o più avanti a Lisandro, il quale (anche per noi lettori) decodifica come amore puro e disinteressato il rapporto sadomasochistico imposto dal capitano Green a Mattia, e da questi (più plausibilmente) accettato per elaborare i propri fantasmatici, puerili sensi di colpa. Martim-Green rende in ogni caso ancora più manifesta l’altra faccia della dimensione dell’omosessualità (in Mattia, prevalentemente individuale, familiare, classicamente psicoanalitica), mostrandone quella socio-politica e storica incarnata dal proprio vissuto: forgiato da una cultura asfittica e ipocrita, che fa del potere e della violenza ottusa il proprio unico credo.
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