Dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta Yussef Hosni – narratore de “Il tumulto”, romanzo di Sélim Nassib – vive più di un momento chiave nella sua città, la Beirut della sua adolescenza, quella delle rivolte del 1968, quella presa di mira da Israele nel 1982. Riecheggiano dinamiche dell’attuale crisi mediorientale e la certezza che in guerra perdono tutti in un libro molto difficile per il coinvolgimento personale e le implicazioni socio-politiche, ma di cui l’autore può essere fiero…
Sélim Nassib, nato in una famiglia ebraica di origine siriana, è come quegli scrittori siciliani che hanno abbandonato l’Isola, ma continuano ad abitarla con la mente e con lo spirito e, soprattutto, continuano a scriverne ininterrottamente, non hanno altro da raccontare. Vive in Francia da molto tempo, Sélim Nassib, scrive in francese, e non ha mai reciso il legame umano e letterario con il Libano, in particolare con quello della sua infanzia e gioventù, non ancora dilaniato dai solchi e dalle divisioni degli ultimi decenni. Più che mai esplode questo suo rapporto fortissimo con la terra natale nel suo ultimo romanzo, pubblicato nel 2022 e adesso tradotto, per le edizioni e/o, dall’infaticabile Alberto Bracci Testasecca. Il suo alter ego oscilla fra desiderio di non essere quel che è, di affrancarsi dal proprio destino, e una fedeltà in buona fede, che oltrepassa il tempo, per quel che è, per i suoi parenti e i suoi luoghi, per l’identità che sa di non volere, eppure gli appartiene. Della sua città d’origine respira il meglio e il peggio.
Storia personale e collettiva
Ci sono tre splendide fotografie di un’esistenza e di una città ne Il tumulto (413 pagine, 19 euro) di Sélim Nassib, gran romanzo picaresco, libro impetuoso e burrascoso come da titolo programmatico, che si nutre di pezzi di autobiografia e di storia, fra passato remoto e modernità che avanza, che non disdegna riferimenti e simboli biblici, che non dimentica la Shoah. In primo piano, però, c’è altro. Si leggono tre parti, tre mini romanzi in cui il narratore Yussef Hosni racconta altrettanti periodi chiave, nel 1956, nel 1968 e nel 1982. Sono tre stagioni della sua vita, la gioventù e la scoperta del sesso, la ribellione e la sete di libertà, l’ambizione e la guerra. È una storia coraggiosa, anche una storia del Medioriente, che probabilmente l’autore ha incubato per decenni prima di tirar fuori e trasformare in scrittura, perché il protagonista sembra se non Sélim Nassib, almeno una sua ombra. È una storia personalissima e collettiva, di contraddizioni e ossessioni, con una sola certezza, perfino ovvia, ma che nessuno ricorda: nessuno vince le guerre, le perdono tutti. Eppure l’attualità e gli ultimi anni dimostrano che questo concetto lapalissiano non trova terreno fertile nel cervello di nessun leader. La Beirut della loro infanzia e adolescenza, di Nassib e di Hosni, quella già post-ottomana, è una città multiculturale e di pacifica convivenza tra i popoli. Uno dei migliori amici di Yussuf, quasi tredicenne prossimo al bar mitzvah, è Fuad, un ragazzo musulmano.
«Fuad può essere sia sciita che sunnita, e anche cristiano. Significa “cuore”…»
Di colpo lo guardo con occhi diversi, ma è sempre uguale a se stesso, è Fuad, Fuad Farshakh, rosso, grasso, sudato, con quel terribile sguardo da cane bastonato. Mi disgusta, c’è poco da fare.
Quando ancora Beirut non è martoriata, la loro bella gioventù – al netto di un terremoto durante uno shabbat e delle incomprensioni fra i genitori di Yussuf, al netto di una guerra ben più a Sud, ovvero la crisi di Suez, «Laggiù, altrove, vicinissimo» – sembra quella di ogni latitudine, fatta di scuola e vacanze, domande e scoperte, di ricerca del proibito in luoghi sordidi, fra strade malmesse e bordelli.
C’è odore di desiderio, di soldi, di immonda complicità. Mi lascio attrarre e respingere, resto nel mezzo. Anch’io vorrei essere come loro, anch’io vorrei provare disgusto di me stesso e accettarlo.
Le differenze confessionali
Da giovane il protagonista sogna una ragion di Stato che unisca al di là delle religioni, ma vivrà sulla propria pelle contrapposizioni a lungo covate in modo sotterraneo. La militanza di Yussuf, iniziata con lo scopo di conoscere ragazze, la sua presenza attiva fra i manifestanti della protesta studentesca, nel 1968, costerà la galera a lui e ai suoi sodali e lo scaraventerà nel futuro, nella guerra civile che qualche anno dopo metterà tutti contro tutti, anche a causa delle differenze confessionali, e lo costringerà a lasciare il Libano per la Francia. Vive peripezie da studente impegnato, rivoluzionario ben più che progressista, ma sarà una battaglia infruttuosa. Quella vera, una gran testimonianza, la vivrà da reporter di guerra che detta i pezzi al telefono, inviato a Beirut – l’ombra della città cosmopolita della sua infanzia – da una testata francese nel 1982, per seguire la guerra israelo-libanese. Già da sette anni Yussuf si era trasferito a Parigi per studiare, ma non sa resistere al richiamo della città natale, dove ritroverà gli amici di un tempo, come Fuad, e un amor perduto.
Mi accorgo che in salotto ci sono una maronita, uno sciita, due ebrei e due sunniti, per giunta palestinesi. Un piccolo Libano quasi al completo. Ed ecco che bussano di nuovo, vado ad aprire senza diffidenza. Stavolta è Jana.
L’assedio
Tra bombe e cecchini, eccidi e miliziani, Yussef racconta l’invasione da parte delle truppe israeliane a caccia di palestinesi, l’assedio di Beirut dall’interno, la divisione della città in due zone, i campi profughi. L’ebreo Yussuf – che, rischiando la dipendenza, assume eroina per resistere alle atrocità del conflitto bellico – è contrario all’azione di Israele come a quella delle violente frange palestinesi, come Hezbollah. Ci sono, intatte, alcune dinamiche della crisi mediorientale in corso, segno che quarant’anni e più sono trascorsi inutilmente. Sélim Nassib ha scritto un libro molto difficile per il coinvolgimento personale e le implicazioni e le interpretazioni socio-politiche, ma può andare a testa alta per quel che è stato capace di fare.
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