Non c’è solo il mitico Easy Rawlins, a Los Angeles, come protagonista dei libri di Walter Mosley, ma anche Leonid McGill, investigatore privato già al servizio della mafia, a New York, che vorrebbe, se non cambiare vita, migliorarla. Non semplicissimo, considerati tutti i problemi e i casi con cui fa i conti. Un noir, “La lunga caduta”, attento alla questione razziale e ambientato all’inizio della presidenza Obama…
Professiamo subito la nostra fede: Walter Mosley è un non abbastanza celebrato maestro della narrativa americana, che ha scritto libri che sono già considerati classici. In Italia ha avuto la fortuna d’essere stato rilanciato – dopo essere stato pubblicato da Bompiani, Einaudi, Fanucci e Tropea – da una casa editrice audace e volitiva, 21lettere, che ha già pubblicato tre delle indagini più belle di Easy Rawlins, il suo personaggio più noto, nero, veterano della seconda guerra mondiale, protagonista di sedici romanzi pubblicati fra il 1990 e quest’anno. Classe 1952, di Los Angeles, Walter Mosley ha comunque scritto molto altro, prolifico ed efficace come pochi. E ha un secondo notevole antieroe a cui ha già dedicato una serie di sei romanzi fra il 2009 e il 2020. La lunga caduta (373 pagine, 18 euro), tradotto da Andrea Russo, e adesso proposto da 21lettere, è il primo con protagonista l’imperfetto ma affascinante Leonid McGill che, a differenza di Easy Rawlins radicato a Los Angeles – una Los Angeles di qualche decennio fa – è un investigatore privato che opera nella New York del presente, alla vigilia dell’elezione del primo presidente nero degli Usa: Leonid ha trascorsi da boxeur ed è piuttosto dipendente dalla bottiglia.
Incubi, tradimenti, sensi di colpa
Leggere La lunga caduta garantisce ore molto avvincenti, adrenalina e pathos, ma non è il plot strettamente noir a fare di questo libro di Walter Mosley un titolo imperdibile. Le sue pagine incarnano ogni angolo della Grande Mela, dove lo stesso autore si è trasferito dalla nativa California. Se la voce di New York per eccellenza è stata quella di Paul Auster, con Mosley – meno esistenziale, meno cerebrale, se vogliamo, ma al tempo stesso più amaro e più ironico – non siamo troppo lontani. E non manca un’attenzione costante alla questione razziale e alla, chiamiamola pure, lotta di classe. Questo suo detective privato, di bassa statura e di lontane origini scozzesi, l’afroamericano di mezza età Leonid McGill, ha un ufficio a Manhattan, sogni di redenzione e varie gatte da pelare: dagli incubi in cui si immagina vittima di un incendio a una moglie che non ama e lo tradisce (a proposito si chiama Katrina, come l’uragano del 2005), dal rischio d’essere arrestato, ai sensi di colpa per il suo passato vicino alla criminalità organizzata, al figliastro sedicenne Twill che, si fa in fretta a intuirlo, come principale attività cerca di cacciarsi nei guai, progettando di uccidere un uomo, ad esempio…
La solitudine del “sovversivo”
Guardie e ladri, papponi e prostitute, detenuti e assassini: insomma una brulicante New York dei bassifondi è il brodo primordiale in cui nuota il protagonista di Walter Mosley, a suo modo un “sovversivo” nei confronti della vita passata, che non vuole incastrare più innocenti come, privo di scrupoli, faceva prima, ma che comunque deve arrivare alla fine del mese, e allora deve fare i conti con Ambrose Thurman, che lo incarica di rintracciare quattro uomini di cui non sa quasi nulla, se non i soprannomi che avevano da ragazzini. Forma e contenuto del romanzo sono esplosivi, azioni e pensieri si mescolano in modo efficace, Leonid McGill fa i conti – oltre che con una sostanziale solitudine, anche in mezzo alla gente – con almeno tre casi e i colpi di scena si susseguono implacabilmente, com’è giusto che sia. Una pubblicazione benedetta, un altro pezzo di bravura di Mosley.
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