La scrittura, la critica (“Non è più centrale, ora c’è l’industria culturale”), i premi, i maestri e i punti di riferimento. Una conversazione con Emanuele Trevi, che tocca tanti temi e si sofferma su Jolanda Insana, scrittrice messinese audace e coraggiosa, ancora troppo poco nota. «Lei aveva una straordinaria relazione con il prossimo – ricorda Trevi – viveva in una casa da strega, era colta e allusiva, la sua lingua era gaddiana…»
Ci siamo fatti raccontare del suo incontro avvenuto anni fa con la scrittrice siciliana Jolanda Insana, la poeta (come lei stessa amava definirsi) che a Roma viveva in una casa da strega con le travi a vista, piena di cose strane – come ci racconta lo stesso Emanuele Trevi durante il nostro incontro – e cucinava, vecchie ricette. Scrittrice audace e coraggiosa indubbiamente, la messinese Jolanda Insana lo era, a testimonianza un vasto repertorio letterario – poetico la cui scrittura, lavica e turbolenta, rispecchia a pieno il suo profilo eccentrico da inquieta e visionaria come la chiamò Franco Manzoni sul Corriere della Sera, e ci conferma lo stesso Trevi durante l’intervista: «Indubbiamente, Jolanda aveva una capacità di relazione con il prossimo straordinaria. La prima volta che sono andato a trovarla, nacque una specie di affetto. Pensai che era una donna che aveva davvero vissuto la sua vita, che aveva amato molto, che in qualche modo se l’era cavata. Le era piaciuto qualcosa che avevo scritto su di lei. Mi ha fatto piacere che poi queste pagine siano state inserite nel volume con le poesie complete pubblicato nel 2007. L’ho sempre molto ammirata, non ho cambiato idea».
La morte sta alla vita, diceva Pasolini, come il montaggio sta al girato di un film. È un senso che si crea a ritroso, forse una prerogativa necessaria dal punto di vista narrativo per raccontarne la vita e l’opera, provando a ricostruire in questo modo i pezzi mancanti di una narrazione completa. E forse, i “personaggi” morti sono più maneggevoli per farne un ritratto. Noi abbiamo provato a ricostruire il profilo di Jolanda Insana, poeta ancora troppo poco nota, anche grazie al contributo narrativo da parte dello scrittore Emanuele Trevi, che ringrazio per la disponibilità.
Emanuele Trevi, che tipo di scrittore si sente? Che scrittore è?
«Fondamentalmente, direi scrittore ibrido, cioè non legato alle regole di un genere narrativo o saggistico particolare».
È soddisfatto dei libri che ha scritto?
«Per me conta solo quello che scriverò, non quello che ho scritto, ma insomma, perché no, sono soddisfatto».
Avrebbe voluto scriverne qualcuno stampato da altri? Mi faccia qualche nome.
«No, mi fa piacere leggere un libro che ammiro, ma scrivere è la mia vita, solo io posso viverla così».
È invidioso dei successi dei suoi colleghi?
«No, assolutamente, mai stato invidioso di nulla».
Vincitore di premi, numerose menzioni, pubblicazioni con importanti e stimate case editrici italiane, i suoi libri tradotti in molti Paesi e vincitore del più prestigioso premio letterario, lo Strega; Emanuele Trevi è certamente un nome con una eco che non lascia indifferenti i suoi colleghi scrittori, ma per strada la riconoscono?
«Non so, a Roma si conoscono un po’ tutti, quando vai in tv ti riconoscono di più, però è una cosa ragionevole».
Ha più detrattori o sostenitori?
«Bisogna accettare gli uni e gli altri, in genere sono di più i secondi, almeno spero».
Jolanda Insana è stata una «grande poeta dell’anima» come la definì Raboni inserendola nella rosa degli autori di quelle produzioni che si pongono ai margini dei canoni letterari; vorrebbe anche lei essere incluso in questo olimpo eterno o fa già parte della rosa dei più importanti scrittori contemporanei?
«Non mi vedo come “grande poeta dell’anima”, francamente»
Si considera uno scrittore ambizioso?
«Sì, a ogni libro corrisponde un’ambizione diversa. Voglio migliorarmi, sondare il mio limite. Della carriera non mi importa nulla».
Ha mai pubblicato libri in forma anonima? E con pseudonimi femminili? Le sarebbe piaciuto farlo? Crede lo farà mai? Cosa pensa di chi pubblica con pseudonimi o nomi d’arte?
«Di chi lo fa non penso nulla, a me non è mai passato per la testa».
C’è follia nell’essere scrittori, serve? Perché?
«Credo molto nell’elemento apollineo dell’arte, diffido della follia in quanto tale».
Ha mai pubblicato libri integralmente folli, come ha detto Alessandro D’Ancona commentando i versi di Jacopone da Todi?
«No, perché non sarebbero leggibili, e non sono nemmeno d’accordo con D’Ancona su Jacopone. Se i suoi versi fossero “integralmente folli” nessuno li leggerebbe».
Chi legge i suoi libri, li legge perché? E chi non lo fa, non lo fa perché?
Credo che chi li legge apprezzi la maniera di parlare in prima persona, chi non li legge cerca altro, si annoia del tono di confessione, eccetera eccetera. Molta gente intelligente non legge i miei libri.
I critici, leggendo i suoi scritti, si sentono spiazzati o incoraggiati? E del suo carattere?
«Ho sempre avuto i critici dalla mia perché io sono della stessa razza loro».
Lei cosa pensa dei critici letterari?
«Mi piace la critica, ci credo, è il mio lavoro, si possono fare cose immense con quel mezzo. Tra i più giovani di me, ci sono dei critici molto bravi. Peccato che la critica non sia più centrale nel discorso letterario, com’era nel Novecento. Dove non c’è la critica, c’è l’industria culturale, che è basata sulla propaganda e sul consenso».
Come è avvenuto il suo incontro con Jolanda Insana? Quale è il ricordo che ha della scrittrice? Il primo che le viene in mente…
«Casa sua, una casa da strega con le travi a vista, piena di cose strane. E delle cose che cucinava, vecchie ricette».
Cosa ha pensato della scrittrice la prima volta che l’ha incontrata? E oggi che opinione si è fatto della sua opera?
«Indubbiamente, Jolanda aveva una capacità di relazione con il prossimo straordinaria. La prima volta che sono andato a trovarla, nacque una specie di affetto. Pensai che era una donna che aveva davvero vissuto la sua vita, che aveva amato molto, che in qualche modo se l’era cavata. Le era piaciuto qualcosa che avevo scritto su di lei. Mi ha fatto piacere che poi queste pagine siano state inserite nel volume con le poesie complete pubblicato nel 2007. L’ho sempre molto ammirata, non ho cambiato idea».
A proposito delle composizioni di Jolanda Insana ha detto che “un libro di poesia è come un’ora della vita: non se ne capisce che qualche barlume, in ogni caso”; come mai?
«Non mi ricordavo di averlo scritto ma… sono d’accordo con me stesso. Capiamo una minima parte di quello che ci sta intorno».
Per questo lei scrive romanzi?
«Scrivo romanzi perché so scrivere solo in prosa».
Facendo da termometro sulla qualità delle raccolte poetiche pubblicate oggi, certamente si sarà fatto una opinione: secondo lei a che punto siamo?
«Non ho assolutamente idea, io non seguo nessun genere letterario, seguo le singole persone come ho seguito Jolanda perché un singolo libro mi era piaciuto, così come ho fatto per altre personalità come Antonella Anedda o Sara Ventroni».
Esistono ancora i poeti, le poete?
«Beh, io preferisco “poetessa”».
Ammetto che, come lei, anche io condivido il termine poetessa, ma Jolanda preferiva il neutro.
«… ma sì, certo, perché non dovrebbero esistere, prima parlavo di Antonella Anedda, potrei dire anche Milo De Angelis…a me non interessa uno che scrive versi, mi interessa in che modo vivere la propria vita possa lasciare dietro a sé una traccia poetica».
Di quali scrittori o scrittrici ha stima? E di chi invece non leggerebbe nulla?
«Se si riferisce al contemporaneo, ho stima di Michel Houellebecq, per esempio, o di Rachel Cusk, di Bret Easton Ellis…ma insomma, sono i primi nomi che mi vengono in mente. Chi venero più di tutti è J.K.Rowling. Per la seconda parte della domanda, io non parlo mai male di nessuno, leggo solo quello che mi piace».
Dagli anni Settanta ad oggi, come e cosa è cambiato in letteratura?
«Come dicevo prima, negli anni Settanta un Roland Barthes o una Susan Sontag erano centrali nella letteratura, oggi manca la critica, o meglio c’è ma ha perso centralità, ed è un vero problema».
Il dialetto, che ruolo ha oggi nella letteratura?
«Tutto fa brodo, il dialetto di certo non sparirà, soprattutto per lingue come l’italiano è una risorsa».
L’uso del dialetto è una tendenza che, secondo lei, ha un futuro?
«Sì certo, è una cosa troppo evidente per non essere sfruttata. Soprattutto in Italia».
Lei a quale era letteraria appartiene o si sente di appartenere?
«Non so come verrà ricordata questa epoca, con che definizione».
Vita e morte sono tematiche centrali nell’opera di Jolanda Insana che sembrano avere un filo conduttore anche con la sua La casa del mago, un romanzo-catalogo di tutti gli oggetti e le presenze incontrate fra le mura della sua casa paterna, lei che rapporto ha con la morte? Crede nelle presenze che restano dopo il trapasso?
«Credo che tutto lascia tracce e che queste tracce sono di per sé una forma di vita con la quale i vivi possono mettersi in relazione».
Esistono davvero i misteri o “non c’è niente di nascosto e tutto è rivelato”, come ha scritto Jolanda Insana?
«Ha ragione Jolanda ma questa rivelazione è abbagliante, diventa una forma di cecità nel singolo individuo».
Riferendosi a Jolanda Insana, in particolare all’opera Medicina carnale, ha scritto “leggere i suoi versi è già un esercizio di respirazione”, ci spiega perché?
«Perché quel tipo di ricerca metrica è vicina a una tecnica di respirazione. I versi di misura breve sono i più fisiologici, per così dire».
Il plurilinguismo della Insana, coi suoi frequenti eccessi dialettali, il ricorso a espressioni scurrili (…) ricordano Dante, Jacopone, Pulci, Folengo, Michelangelo Buonarroti, Giovanni Testori, lei come commenta il bilinguismo di Insana?
«Era molto colta, allusiva, quindi la sua è una lingua variegata, dantesca. Più precisamente gaddiana».
Secondo lei, era più semplice o più castrante essere scrittori (uomini) negli anni Settanta che scrittrici (donne)? E oggi?
«Queste sono cose che riguardano i singoli individui, la società crea solo delle tendenze molto vaghe, si potrebbe sempre dire tutto e il contrario di tutto».
Lei ha raccontato di un curioso episodio a cui ha assistito quando è andato a trovare la poeta nella sua casa di Roma, se lo ricorda? Ce lo può raccontare?
«Ho un ricordo molto vivo di quella strana casa e del palazzo, all’angolo tra via del Babuino e via dei Greci, ma ora non riesco a ricordare l’episodio a cui si riferisce la domanda».
Lei, Emanuele Trevi, è figlio dello psicanalista Mario Trevi, uno dei primi medici a diffondere l’indirizzo junghiano in Italia, che rapporto ha con la psicoanalisi?
«Sono andato in analisi per qualche anno, mi è molto piaciuta la persona da cui andavo, una donna esile come un pettirosso ma molto forte, ottima esperienza».
La malattia, per lei, come per Insana, è un avversario leale come lei stesso ha scritto, o un guerriero da sconfiggere?
«Sono cose che si possono capire solo al momento supremo».
Jolanda Insana è stata una scrittrice audace, spudorata o eccessiva, secondo lei? La sua opera è stata compresa o resta ancora un enigma?
«Beh, era una scrittrice devota a Priapo, prediligo questa spiegazione. Ne abbiamo anche parlato».
Lei si sente più in debito o in credito con la sua scrittura? E con la vita?
«A sessant’anni, sto imparando a vivere tutte le cose come fosse l’ultima volta, e questo mi ha regalato una certa intensità che compensa il declinare delle forze. La scrittura è esattamente come la vita».
Ha scritto tutto quello che voleva o ancora c’è del lavoro da fare?
«Sì, ho in mente due libri e sto finendo una specie di racconto lungo, una storia d’amore».
A cosa, più precisamente, sta lavorando?
«A quello che dicevo».
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