Miriam Rebhun, scrivere di Shoah e guardare al futuro

Miriam Rebhun torna a raccontare nel libro “La dedica” il passato della propria famiglia, segnato dall’annientamento della Shoah, da esili e persecuzioni. Quasi dal nulla salta fuori una sua cugina, figlia del fratello gemello del padre. Un’occasione non solo per ricercare un altro pezzo di passato, ma per rivolgersi al domani con speranza…

Le storie familiari sono il marchio di fabbrica di Miriam Rebhun, napoletana, ex insegnante, che alle proprie origini, anni fa, aveva dedicato due volumi, Ho inciampato e non mi sono fatta male e Due della Brigata. Un dittico costruito attraverso testimonianze, diari, documenti, evidentemente, non concluso, riaperto dalla realtà che, a volte, si fa beffe di qualsiasi immaginazione. Nelle precedenti pubblicazioni aveva raccontato gioie e dolori dei fratelli gemelli Heinz (poi Chanoch) e Gughi (soprannome di Kurt, poi Emanuel), rispettivamente suo padre e suo zio, fuggiti via nel 1936 dalla Germania nazista, per riparare in Israele: scansarono la Shoah ma morirono entrambi nel 1948 (ucciso da un cecchino Heinz, morto durante la guerra d’Indipendenza Kurt), per vivere nel ricordo dei discendenti solo attraverso i racconti delle mogli. Decenni dopo Noa, nipote di Gughi, legge online un messaggio per suo nonno, su una pagina dedicata ai caduti di Israele: «Sono Daphna, ho settantasei anni e sono tua figlia. Vivo a Berlino, ora sono in viaggio in Israele e penso a te». Miriam Rebhun pensa di non aver finito il proprio compito e crede di poterlo fare con occhi nuovi. Tra Napoli, Berlino e Israele. Alla luce di quella novità, l’autrice e voce narrante definisce meglio situazioni e lettere del passato, comprende passaggi che magari in precedenza le erano apparsi oscuri o fuorvianti.

Ora la mia prospettiva è cambiata. Se lavorare sui documenti e ricostruire l’andamento di vite scomparse mi sembrava un dovere, una mitzvà, come si dice in ebraico, un modo per non far cadere nell’oblio persone che avrebbero voluto vivere, ora, partire da quella dedica e fare di tutto per trovare la firmataria mi appare un progetto gioioso, volto al futuro, un’eventualità imprevista che può avere ancora un impatto sulle nostre vite.

Fra dolore e ottimismo

La dedica (162 pagine, 16 euro), questo il nome del terzo libro di Miriam Rebhun, pubblicato dalla casa editrice Giuntina, non è semplicemente e non è solo la storia di una ricerca (quella di una potenziale cugina per l’autrice), il cui esito è tutto sommato rapido, anche se non diremo in questa sede se positivo o negativo. Getta uno sguardo propositivo e ottimista sul tempo che verrà, sulle generazioni future, pur ricostruendo storie di annientamento e di dolore, legate agli avi delle protagoniste, alla “soluzione finale” e alla Shoah, vicende di persecuzione ed esilio.

Rianimare vite in disarmo

Il libro di Miriam Rebhun mescola passato remoto e presente, lacune e vuoti temporali con le ultime tecnologie del web e delle chat telefoniche. Non è un polveroso testo del tempo che fu, pur facendo spalancare gli occhi di chi legge sui destini perduti di moltissimi ebrei. Il filo conduttore de La dedica è una memoria che si fa senso di appartenenza, anche in età avanzata (i protagonisti sono tutti ultrasettantenni), è un calvario illuminato di luce, in fondo, è un inno a ciò che inopinatamente può ribaltare destini spenti, rianimare vite in disarmo.

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