Tra memoriale e biografia romanzata, ne “Il fuoco che ti porti dentro”, Antonio Franchini – prosa magistrale, ironia sottesa – racconta la propria detestabile madre, la peggiore delle madri possibili, colma di rabbia e fiele, di strali contro il mondo, di astio e rancore contro gli stessi familiari, a cominciare dai figli. Un archetipo letterario, più che un’eccezione, comune a molte donne d’antan, cresciute ed educate in famiglie anaffettive. Eppure…
Angela è inferocita contro il mondo intero, cui riserva le parole — nient’altro che strali — peggiori. Anche se a volte per la sua vis polemica può risultare simpatica, Angela non ha e non vuole avere amici, ché degli esseri umani non si fida, non vuole pertanto che qualcuno entri nella sua sfera affettiva. Angela ha una propria famiglia, un marito e dei figli, cui riserva — specie alla figlia Anna — lo stesso fiele, la stessa rabbia rappresa e verbosa che riversa addosso al resto del mondo. Angela ha un padre e una madre, la sola, quest’ultima, che condivida con lei una pessima concezione del genere umano e, di conseguenza, nutra nei confronti di questo la medesima affezione rancorosa e astiosa. Angela è corrosa da una rabbia cieca, ostinata e profonda, diremmo quasi atavica, ché affonda le proprie radici nella sua ascendenza materna. Una rabbia che la logora nel profondo e che, debordando incessantemente nel suo quotidiano, ne compromette e consuma gli affetti più stretti, le relazioni sociali, le azioni e, soprattutto, i pensieri. Ogni istante di Angela è pervaso ed eroso da un’acredine urticante, al vetriolo, che altro non è se non puro odio, immotivato e gratuito, che come il fuoco arde e distrugge tutto ciò, e tutti quelli, che incontra sul proprio cammino.
Angela è una donna collerica, una moglie irosa e, soprattutto, una pessima madre — tra le peggiori che si possano immaginare e avere. Angela è la madre dell’io narrante ne Il fuoco che ti porti dentro (223 pagine, 18 euro), Marsilio editori, e, grazie alle rielaborazioni, le stratificazioni, le metamorfosi, che la letteratura consente, è anche l’alter ego letterario della madre dell’autore, Antonio Franchini.
Le nostre madri
Angela, però, è anche l’alter ego letterario di tante donne e madri conosciute, amate e, al tempo stesso, detestate, respinte, persino negate, da molte e molti di noi, perché, a conti fatti, corrisponde a una sorta di archetipo letterario e psicologico: quello delle donne d’antan, cresciute ed educate in famiglie anaffettive, nelle quali la tenerezza e la dolcezza, e più in generale le emozioni, nella sfera familiare e privata, e nella vita tout court, erano aborrite, perché indice di debolezza e assenza di carattere, quindi disdicevoli per chiunque.
Se Angela, in quanto madre, è tutto questo, oltre a essere amata, temuta, aborrita e, per lo più, incompresa nella vita quotidiana e comune, forse solo nelle battute finali della propria esistenza, divenuta fragile per età e acciacchi, oppure malattia, desterà probabilmente tenerezza e, sebbene si ostini a ostentare ancora la pervicace ruvidezza di un tempo, riuscirà a essere amata e accettata per quella che è.
Succede ed è successo a molte delle nostre madri e nonne, succede anche a Angela ne Il fuoco che ti porti dentro, un romanzo che oscilla tra il memoriale e la biografia romanzata, in quanto questo è anche il taglio con cui Antonio Franchini parla e vuole narrare della madre e del proprio rapporto con lei. Una prospettiva narrativa (e di analisi) in cui, attraverso una prosa precisa e sicura — magistrale —, nella quale l’ironia e il sarcasmo sono costantemente sottese, non fa sconti alla donna che lo ha messo al mondo e di cui — paradosso, provocazione — scrive di essersi vergognato fin dall’istante successivo alla propria nascita, quello del primo vagito.
Non agiografia ma pacificazione
Il fuoco che ti porti dentro non è un’agiografia della figura materna, non ha nulla a che fare con i ritratti di altre madri immortalate dalla prosa o dai versi di alcuni tra i più noti autori della nostra tradizione letteraria: Antonio Franchini stesso, citando Quasimodo, fatica a ravvisare in Angela i tratti di una mater dulcissima. Ciò nonostante, si pacifica con lei e ne recupera la figura, ripensandola e rielaborandola attraverso la scrittura e la parola letteraria, senza farle sconti, senza redimerla o salvarla, semplicemente restituendocela per quella che è ed è stata: la peggiore tra le madri possibili e immaginabili, la sola, reale e concreta madre conosciuta, inevitabilmente amata e odiata, prima rifuggita, poi involontariamente ritrovata e, infine, scoperta coerente nella sua contraddittoria natura di madre e anima corrosa da un vuoto profondo — una vera voragine — quanto il senso di inadeguatezza che la consuma, quanto l’assenza di amore e ascolto empatico con cui è cresciuta e vissuta. Una madre e una donna come molte altre, cresciute e vissute — forse non solo un tempo — in un deserto affettivo, che le ha rese incapaci di amare gli altri, perché incapaci di amare sé stesse, in quanto, più o meno consapevolmente, sicure di essere indegne di amore, condivisione, felicità e bellezza. Quante di loro sono (state) arse dallo stesso fuoco rabbioso che ha consunto Angela.
E quante e quanti di noi, al di là dei generi, ancora oggi, rischiano di essere arsi e consumati dalla stessa aridità emotiva e affettiva?
La letteratura, ancora una volta, può esserci amica e maestra.
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