Un incontro che spazza le certezze: per Jean, conduttrice radiofonica che vive di rendita, questo rappresenta conoscere Chiara, single che vuole diventare madre. Sarà proprio l’inizialmente scettica Jean ad assistere la donna, addirittura accompagnandola all’estero per realizzare il suo sogno. Il romanzo “Come arcipelaghi” di Caterina Perali è di inaudita attualità…
Con proposta di modifica all’articolo 12 della legge 40/2004, il Parlamento italiano ha dichiarato la maternità surrogata, già vietata da detta legge, reato universale. Ciò significa che è perseguibile come reato non solo se praticata in Italia ma anche all’estero, da cittadini italiani ovviamente. Il dibattito che ha preceduto e seguito la votazione in Parlamento è stato connotato da toni molto accesi e posizioni dualistiche che non si incontreranno mai. In base ai dati raccolti nel Rapporto Italia 2024 Eurispes, il 62.9% degli italiani si dichiara contrario alla maternità surrogata, con una percentuale in crescita rispetto al 2021, allorquando era favorevole il 59.8% dei rispondenti. Per quanto riguarda, invece, la fecondazione eterologa che richiede l’utilizzo dei gameti donati da individui esterni alla coppia, 6 italiani su 10 si dichiarano favorevoli. Lo sono soprattutto i cittadini italiani di età compresa tra i 18 e i 44 anni. Aumentando l’età degli intervistati progressivamente cala la percentuale di consenso.
In Italia, sia la fecondazione omologa che quella eterologa sono consentite. A disciplinarle è la medesima legge, ovvero la 40/2004. I requisiti per accedere alla fecondazione eterologa sono chiari, è necessario che si tratti di una coppia eterosessuale e convivente, anche se non coniugata, e che l’età della partner femminile sia ancora in epoca fertile, orientativamente al di sotto dei cinquanta anni.
«Mi basta il tuo sperma!» è la frase che apre il romanzo di Caterina Perali centrato sul tema della fecondazione assistita. Il racconto preciso di un percorso che la medicina oggi può offrire a chiunque voglia avere dei figli.
Nuovi fantasmi
Da sempre la maternità è stata considerata un evento naturale da ascriversi al destino femminile; se la collochiamo tra i comportamenti naturali rischiamo di non cogliere il senso profondo della sua essenza e ne appiattiamo la sua molteplicità storica e antropologica. D’altra parte, se le attribuiamo una esclusiva valenza sociale, rinneghiamo il suo radicamento corporeo e inconscio. La donna è sempre stata ritenuta la depositaria dell’amore materno; questo affetto incondizionato presuppone l’annullamento del sé in funzione del figlio e l’abbandono di qualsiasi aspetto individualista che non sia in armonia con le cure del proprio bambino. Tale concezione, tuttavia, se trascura il contesto culturale, i vissuti e la fragilità connessi alla trasformazione psichica della donna, durante la gravidanza, perde di vista tutta la complessità della situazione. Attualmente, le donne si confrontano con nuovi fantasmi che influenzano, inevitabilmente, il processo che le conduce a divenire madre. In passato la maternità “come destino” era determinata dall’impossibilità di controllare le nascite. Oggi il progresso biomedico e le trasformazioni sociali e culturali hanno prodotto nell’immaginario femminile nuove possibilità e nuove configurazioni di genitorialità, conducendo le donne alla sublimazione del desiderio e all’assunzione della responsabilità della scelta.
Il confronto delle donne con la nuova idea di maternità, caratterizzata dal controllo della fecondità e dalla possibilità di intervenire medicalmente su di essa attraverso la procreazione assistita le pone al cospetto di scelte un tempo impensabili. Scelte che le costringono a confrontarsi con nuovi fantasmi che possono condurre a forti vissuti depressivi. La nascita psicologica della madre corrisponde a quella situazione psichica in cui la donna si trova a creare in sé uno spazio mentale nel quale riorganizzare la nuova identità e contenere l’idea del proprio bambino. Infatti, alla metamorfosi corporea corrisponde una crisi di identità che la conduce a ridefinire il proprio assetto mentale. Perdere il confine della propria identità, diventando doppia, è un passaggio evolutivo molto complesso che dovrebbe concludersi, dopo la nascita, con il ritorno alla propria individualità. Il cambiamento dell’identità, presente nella maternità, implica un grande lavoro psichico che dovrebbe condurre le donne a pro-seguire nell’itinerario della propria esistenza, inoltrandosi nel presente, separandosi dal passato e camminando verso il futuro. In questo complesso percorso esistenziale è necessario attuare delle reti di sostegno, che siano capaci di accogliere le silenziose richieste di aiuto delle madri sia nel periodo gestazionale sia dopo la nascita del bambino.
Una single e l’eterologa a Valencia
La protagonista del romanzo Come arcipelaghi (160 pagine, 16 euro) di Caterina Perali, pubblicato da Neo edizioni, è una donna single che ha scelto di diventare madre con la fecondazione assistita. La sua storia viene raccontata attraverso lo sguardo, prima incredulo poi indagatore, di un’altra donna, sua coetanea, la quale sulle prime non comprende la scelta di Chiara ma poi sembra addirittura entrare in piena sintonia con la stessa. L’ambiente in cui il tutto si svolge è uno stabile di ringhiera che evoca immagini da vecchia Milano, quasi una location dei tempi che furono. E invece la vicenda narrata dall’autrice è molto attuale. Questo contrasto sembra quasi incarnare il dualismo che aleggia sempre intorno a tematiche del genere, delicate sensibili e complesse. Il percorso che Chiara deve seguire per portare avanti la sua scelta di sottoporsi alla fecondazione eterologa non è semplice e sarà proprio una iniziale scettica Jean ad assistere la donna, addirittura accompagnandola fino a Valencia, perché in Italia non le viene consentito di accedere a tale procedura.
La natura come realtà biologica e il sistema sociale e culturale, ciascuno con le proprie regole, sin dall’inizio dell’età moderna sono stati soggetti a un processo, al tempo stesso di distanziamento e di compenetrazione, in continuo divenire: di volta in volta, la natura è stata vissuta come amica o come sfida per la razionalità dell’uomo. In questa prospettiva, se è vero che il ricorso alle tecniche di riproduzione assistita è un procedimento fondamentalmente culturale, è altrettanto vero che anche le norme che configurano il rapporto di filiazione naturale sono, nelle diverse società, profondamente influenzate dalla cultura propria di ciascuna di esse e rappresentano, quindi elaborazioni culturali dei diversi sistemi sociali. La contrapposizione tra natura e artificio, allora, costituisce sotto alcuni aspetti un falso problema, mentre sotto altri si rivela inidonea a descrivere esaurientemente il rapporto che intercorre tra dato naturale e dato culturale (artificiale) in molti ambiti dell’esistenza umana, tra i quali non si può certo non ricordare la procreazione. In effetti, naturale e artificiale sono sempre stati separati solo dalla convenzione sociale.
Nella procreazione oggi prevale l’aspetto della scelta volontaria. Tuttavia detta “scelta” se da un lato contiene positivi aspetti di libertà (individuabili in una migliore possibilità di raccordo tra tempo biologico, tempo psicologico e tempo sociale personale e di coppia) e di responsabilizzazione dell’uomo e della donna, dall’altro porta con sé il rischio di un’eccessiva soggettivizzazione e privatizzazione del vissuto genitoriale. In senso più generale lo spostamento del confine tra natura e artificio appare strettamente correlato alla progressiva medicalizzazione dell’esistenza che caratterizza la nostra società e che comporta una sorta di delega all’apparato sanitario scientifico riguardo ad ambiti e momenti decisivi della vita umana, tra i quali appunto la procreazione.
Cosa è veramente egoistico?
È inevitabile domandarsi cosa spinga le coppie sterili che si rivolgono alle tecnologie di procreazione assistita a cercare un figlio “proprio” a tutti i costi, piuttosto che ricorrere all’adozione. Quest’ultima, che rinuncia al legame biologico, pone il partner fecondo e quello sterile sullo stesso piano nei riguardi del bambino e maschera la responsabilità della sterilità all’esterno della coppia. L’adozione inoltre sembra riproporsi, per il soggetto sterile ma soprattutto per l’uomo, come permanente verità del proprio limite. D’altro canto, però, le tecniche eterologhe costringono i partner a confrontarsi, seppur solo a livello psicologico, con la figura del donatore. Si è constatato che il significato immaginario di cui il donatore può essere investito innesca frequentemente, nei soggetti che devono ricorrere a pratiche eterologhe, complessi meccanismi di difesa, che si esprimono, per esempio, nei timori per le reali condizioni di salute del donatore o nel dubbio sulla possibilità della trasmissione di malattie ereditarie non riconosciute o non riconoscibili all’atto della donazione.
La procreazione assistita non può essere affrontata unicamente sul piano di realtà. Esiste un altro registro, quello dell’inconscio, che non può essere in alcun modo disconosciuto. Basti pensare alle fantasie relative al significato profondo che le varie procedure assumono agli occhi dei pazienti, agli investimenti emotivi di tutte le persone coinvolte, compresi i donatori, gli operatori, il bambino concepito. Gli effetti di ciascuno vanno valutati nel tempo, soprattutto per quanto concerne il nascituro.
Caterina Perali racconta la storia di una donna single che si approccia alle pratiche di procreazione assistita eterologa. Una donna quindi che ha scelto di far nascere e crescere un bambino senza la figura paterna.
L’assenza del padre nella scena psicologica del bambino compromette gravemente la risoluzione della relazione simbiotica con la madre e il graduale transito verso una condizione di separazione-individuazione. Il rischio è quello che il bambino resti imprigionato in una relazione fusionale con la madre (il che può implicare anche la sua assunzione di identità di genere). Per la madre il rischio è quello di vivere il figlio come proprio prodotto, un figlio fatto da sola, con un’accentuazione delle aree narcisistiche.
La struttura del libro di Perali sembra voler invitare il lettore a riflettere su cosa sia veramente egoistico e narcisista tra il desiderare un figlio a ogni costo e il non desiderarlo affatto.
La voce narrante di Come arcipelaghi è Jean, donna che vive di rendita e che per sentirsi utile al mondo conduce una trasmissione radiofonica, una sorta di melting pot nel quale chiunque può intervenire e dire la sua riguardo qualunque argomento, e coltiva sonnecchiante una relazione d’amore con Carlo. Jean è una donna la quale, nonostante le innumerevoli domande intorno alle quali ruota la sua professione, sembra non volersi interrogare sulla vita. Questo almeno fino all’incontro con Chiara che diventa un vero e proprio scontro con i costrutti sociali metabolizzati negli anni e che le erano sempre sembrati, fino a quel momento, certezze assolute.
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