La novità di Leïla Slimani, la colonizzazione dall’interno

Prende le mosse da alcuni elementi autobiografici “Il paese degli altri” di Leïla Slimani, primo romanzo di una trilogia che rappresenta un punto di rottura rispetto alla critica della società franco-marocchina dei libri di Ben Jelloun, Chraïbi, Laroui. Nella difficile convivenza di due sposi, lei alsaziana, lui maghrebino, si riflettono i dissidi tra i coloni francesi e i marocchini. Sullo sfondo, ma non troppo, le contraddizioni e l’ipocrisia delle autorità francesi di volere rispettare usi e costumi locali…

Nel 2020 Leïla Slimani pubblica per Gallimard il primo volume di una trilogia che si concluderà nel 2025 con l’ultima opera dal titolo J’emporterai le feu, sempre per i tipi della storica maison d’éditions. Il paese degli altri (352 pagine, 19 euro), tradotto in italiano da Anna D’Elia e pubblicato da La Nave di Teseo, è un progetto maturato negli anni e che tende, nelle intenzioni dell’autrice, a colmare un vuoto rispetto al racconto della colonizzazione; se da canto, in effetti, i temi tipici della post-colonizzazione, quali l’identità, lo spaesamento, la questione linguistica, la critica della società franco-marocchina hanno avuto la loro sublimazione nelle opere di Ben Jelloun, di Chraïbi, di Laroui, per citare solo alcuni dei nomi più significativi, un racconto della colonizzazione vissuta dal di dentro, nel suo sviluppo diacronico che abbraccia gli anni precedenti ai moti indipendentisti del ‘56 e la contemporaneità, costituisce una novità. Nel caso di Ben Jelloun, infatti, benché con i suoi due romanzi d’esordio, L’enfant de sable e La nuit sacrée egli costruisca un’evoluzione nel tempo dei personaggi, in realtà il suo sguardo è soprattutto centrato sulla fatica della formazione identitaria della protagonista all’interno di un mondo fortemente caratterizzato dalla tradizione islamica; dal canto suo Driss Chraïbi ha sempre trattato del rapporto problematico tra la cultura occidentale e quelle maghrebina, mentre Laouri ha analizzato con sguardo irriverente e dissacratore vizi e virtù della sua terra. La trilogia di Slimani si colloca invece pienamente nel solco dei romanzi storici e fa rivivere vicende le cui conseguenze ritroviamo riflesse nel Marocco attuale.

I sogni di una coppia mista

Il romanzo mostra uno spaccato di vita del Marocco sotto il Protettorato, che va dalla fine della seconda guerra mondiale a qualche mese prima dell’indipendenza marocchina e prende le mosse da alcuni elementi autobiografici della scrittrice, nata a Rabat, figlia di una famiglia mista, padre marocchino, madre francese, che annovera fra le sue amicizie la sociologa Fatema Mernissi. La nonna alsaziana, nel 1944 conosce il suo futuro marito, un colonnello marocchino degli Spahi, le truppe coloniali francesi, con il quale si trasferirà in Marocco subito dopo la guerra. Protagonista del romanzo è dunque una coppia mista, che non ha niente in comune: lei, Mathilde, alta, chiara, bionda, occhi verdi, cristiana, occidentale, infantile e viziata; lui, Amin, un affascinante uomo scuro, come i suoi occhi, neri e profondi, non particolarmente alto, musulmano, maghrebino, impacciato e, si scoprirà poi, violento. I due si conoscono durante gli ultimi mesi della guerra, decidono subito di sposarsi e, di lì a poco di trasferirsi in Marocco. Ciò che li accomuna, sono però i grandi sogni che nutrono per il loro futuro. Mathilde, prosaica Bovary di un’altra provincia, vuole fuggire dal suo mondo angusto, dove la guerra ha azzerato ogni forma di leggerezza, vuole vivere in altri spazi, in cui potersi sentire finalmente libera; Amin, che ha servito la Francia come arruolato prima e come volontario poi, che è stato in un campo di prigionia tedesco per lunghi mesi, che gode di un certo prestigio proprio perché ha servito la “patria”, vuole dedicarsi all’agricoltura: ha infatti ereditato dal padre un terreno che vuole trasformare in un grande campo coltivato con alberi da frutto. Lui è intenzionato a usare metodi moderni di coltivazione, macchinari all’avanguardia, come e più dei coloni, ai quali quei mezzi erano stati riservati, non tanto e non soltanto dalle leggi, quanto da un non detto eurocentrico che impediva ai marocchini un’autentica affermazione dignitaria davanti dai coloni.

Quando i due arrivano in Marocco, il sogno esotico, carico di cliché della giovane sposa alsaziana sfuma quasi subito: «La prima volta che Mathilde andò a vedere la fattoria, pensò: “Troppo lontana”. Il fatto che fosse tanto isolata la preoccupava. All’epoca, nel 1947, non possedevano una macchina e avevano quindi dovuto percorrere i venticinque chilometri che li separavano da Meknes a bordo di un vecchio calesse, guidato da uno zingaro. Amin non faceva caso alla scomodità del sedile di legno, né alla polvere che faceva tossire sua moglie. Non aveva occhi che per il paesaggio ed era impaziente di arrivare alle terre che suo padre gli aveva lasciato» (p. 13).

Noi vs loro

Sin dalle prime pagine si comprende quindi che la convivenza tra i due sposi sarà difficile. Tale difficoltà si stratifica lungo tutto il romanzo dando vita a continue dicotomie, personali e di coppia, nel tentativo di far collimare le proprie contraddizioni, le proprie contrapposizioni che emergono da due mondi molto diversi: l’uno quello francese, occidentale, l’altro, quello marocchino, arcaico, di un paese, dirà Amin, «dove Dio e l’onore si confondevano» (p. 39). Tale contrapposizione, che nella coppia è inevitabile e fonte di dolore ed incomprensioni per i due protagonisti, ma anche per i loro figli e la famiglia di Amin, si riscontra parimenti e con la stessa forza a tratti distruttiva e quasi sempre inconciliabile, nella società, costruita sul dualismo Noi/Loro: da un lato troviamo infatti i coloni francesi contro i marocchini, che tollerano appena e considerano inferiori; dall’altro i marocchini che vedono nei coloni la causa di tutti i loro mali. Un dualismo frutto di scelte politiche ben precise e che Slimani intreccia sapientemente nelle trame del romanzo. Sembra doveroso, a questo punto, ricordare in che modo le autorità francesi procedettero in Marocco, memori del fallimento della scellerata politica assimilazionista attuata in Algeria, dove si era operata e si perpetrava una sistematica sovrapposizione del modello francese alla società. In Marocco le autorità, nella persona del generale Hubert Lyautey, decisero di rispettare usi, tradizioni e costumi locali. Secondo Lyautey, come afferma la studiosa Rachele Borghi nel suo articolo “Ordine sociale e ordine urbano: la ville nouvelle nell’ideologia coloniale francese”, l’ordine urbano doveva essere il riflesso dell’ordine sociale, nel senso che più le città erano ordinate nella loro struttura urbana, più sarebbe stato facile mantenere l’ordine sociale. Lyautey era convinto, inoltre, che la democrazia fosse la causa di perdita di vigore e ordine della Francia e che in una società ancora fortemente gerarchizzata e arcaica come quella marocchina, si potesse realizzare una società retta da un’aristocrazia illuminata. In questo senso, il Marocco si presentava come una tela bianca, ancora tutta da disegnare e in cui poter attuare quel nuovo metodo di colonizzazione in cui l’azione coloniale era concepita come strettamente legata all’azione sociale dello spazio urbano. E per poterla realizzare, era necessaria una separazione tra la Medina, la parte storica, indigena, luogo delle tradizioni, e la ville nouvelle, la città nuova, moderna, dinamica, in una parola, occidentale. Tale separazione rispondeva a tre principi: separare per mantenere l’identità, valorizzare i siti urbani marocchini e infine riservare l’urbanistica moderna solo alla nouvelle ville. Tra le due città si crea però anche uno spazio apparentemente vuoto, un cuscinetto no man’s land, controllato in realtà dai coloni. A ben vedere, quindi, la volontà ufficiale di proteggere e preservare culturalmente la Medina si rivela ambigua, fortemente ipocrita e, come vedremo, manipolatoria, poiché si chiude definitivamente e in maniera asfittica un’area della città alla quale si impedisce di espandersi, di progredire e, in ultima istanza, di vivere. In uno dei suoi saggi più famosi, Sorvegliare e punire, Michel Foucault aveva teorizzato che il controllo sulla popolazione può essere esercitato non solo con la repressione armata, con un apparato militare visibile, ma anche con altri strumenti più subdoli, che danno l’illusione di godere di una certa libertà, in realtà limitata e organizzata da chi esercita il potere. Egli afferma ancora che per poter essere esercitato, il potere deve generare dei comportamenti interiorizzati dalla società, percepiti come normali, naturali. I primi anni del Protettorato procedono così, con una costruzione di una normalizzazione di comportamenti ghettizzanti che vengono però percepiti come “naturali”, addirittura necessari. Questo metodo manipolatorio ce lo racconta Leïla Slimani: nel paese degli altri gli indigeni hanno ospedali dedicati, non possono salire in prima classe sui treni, se vogliono lavorare nella città nuova devono esibire il permesso di lavoro. Per carità, i colonizzati, i “protetti” possono circolare più o meno liberamente, andare nella ville nouvelle a fare compere; niente lo vieta loro. Se non gli sguardi sprezzanti dei passanti, dei commessi pieni di pregiudizi che li squadrano dalla testa ai piedi, che fanno maledire mille volte la scelta di oltrepassare il confine tra i due mondi. Si legge nel romanzo:

«La prima classe era preclusa agli indigeni e le due donne non si capacitavano della stupidità e dell’impudenza di quelle due analfabete» (p. 109) oppure «Nella città europea insultava i domestici, i custodi e i giardinieri che, col capo chino, allungavano il permesso di lavoro ai poliziotti francesi che li apostrofavano minacciosi: “Quando hai finito di lavorare, ti togli dai piedi, chiaro?”» (p. 200)

Le istanze nazionaliste

Nell’ultima parte del romanzo si susseguono sullo sfondo i moti rivoluzionari contro quelli che ormai sono considerati veri e propri invasori, emerge la figura di Omar, il fratello di Amin. Il ragazzo è una testa calda, un ribelle, profondamente invidioso di quell’eroe di guerra che per lui è solo un traditore, uno che si è schierato con il colonizzatore, rischiando persino la propria vita per la Francia. Omar rappresenta la sintesi di tutte le istanze nazionaliste contro i francesi e la violenza della vendetta, il sangue freddo di chi deve raggiungere uno scopo ad ogni costo e lo scopo è la liberazione della propria terra. Ma di fronte alla rivolta gli atteggiamenti sono davvero diversi: i coloni si sentono abbandonati, sfruttati, perseguitati, vengono trucidati dai ribelli, le loro terre saccheggiate; le élite lottano con le armi date loro dalla loro posizione sociale (giudici, uomini d’affari). I protagonisti, invece, che sono dilaniati dai propri conflitti, si distaccano da una guerra che riguarda gli altri, il paese degli altri. Amin, in particolare, ha sempre avuto un rapporto tormentato con i francesi, ha combattuto per loro, parla perfettamente la loro lingua, ma non ha mai sopportato il doversi giustificare di essere marocchino. Solo che, a differenza del fratello, non ha il coraggio per difendere la causa comune.

Se in Regardez-nous danser la cornice storica cede un po’ troppo alla dimostrazione fino a risultare a tratti didascalica, Il paese degli altri appare più autentico e perciò più credibile. A dispetto dello stile di Slimani, asciutto, incisivo nel suo incedere senza orpelli, Il paese degli altri si rivela essere un romanzo che scuote per la crudezza delle vicende narrate. L’autrice ci aveva già, per la verità, abituati con Chanson douce (Ninna nanna, Rizzoli, 2016) alla sua capacità di descrivere atrocità senza passare dalla spettacolarizzazione della lingua, ma al contrario attraverso uno sguardo neutro e non meno efficace. Lo stesso che fa sì che la piccola Aisha, (protagonista della seconda anta del trittico progettato da Slimani), la quale vuole capire cosa succede attorno a lei, ponga delle domande al padre nella speranza di essere rassicurata. Vuole sapere se la sua famiglia è dalla parte giusta della Storia, se loro sono i buoni. La risposta di Amin risuona forte e terribile nella sua banale e a un tempo tragica evidenza: «nelle guerre non ci sono più buoni o cattivi, e non c’è più giustizia».

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