Senza spocchia, ma con coraggio Percival Everett rende omaggio, rielabora e aggiorna “Le avventure di Huckleberry Finn” di Mark Twain in “James”, prendendo di petto la questione razziale. La voce narrante è quella di Jim, lo schiavo in fuga con Huck: non è però, come nel romanzo originale, un personaggio ignorante e superstizioso, ma colto e ambizioso. Quando la sua strada si separa da quella di Huck diventa un angelo della morte, che attraversa il Midwest americano proiezione degli Stati Uniti del presente, democrazia fragile, insofferente nei confronti delle istituzioni e dove il razzismo ancora prospera…
Un tempo era il fiore all’occhiello del catalogo della casa editrice Nutrimenti, Percival Everett, da qualche anno è entrato a far parte della grande famiglia de La Nave di Teseo. I suoi primi titoli sono ancora disponibili grazie all’editore romanzo, ma adesso che è molto più che un maestro riconosciuto, uno dei più bravi ed eclettici romanzieri americani, e quindi del mondo, è la casa di Elisabetta Sgarbi ad accompagnarlo fra le braccia dei lettori italiani. L’occasione più recente coincide con un romanzo profondo ed emozionante, che può restare nella storia (non ha vinto vinto il Booker, che negli ultimi quindici anni non è stato vinto dai migliori, ma si è aggiudicato il National Book Award…) e che certamente è fra le prove più importanti della carriera di Percival Everett, che dopo ventinove anni ha cambiato editor, come spiega nella nota finale, in cui definisce questo volume l’esperienza più bella della sua vita di scrittore. Merito anche di un collega che siede nell’Olimpo, Mark Twain, che lo ha ispirato, con l’immortale e popolare classico Huckleberry Finn, per il suo James (335 pagine, 20 euro), tradotto da Andrea Silvestri, alle prese con un compito non semplice, pagine infarcite di certo slang degli schiavi, per cui ha dovuto trovare delle soluzioni creative…
Un retelling che vola altissimo
Sono i retelling, bellezza! Ci sono le grandi opere del passato, figlie del loro tempo, e quelle del presente ispirate a esse, adattate a una sensibilità contemporanea. Si pensi a certi romanzi di Madeline Miller, Pat Barker o di Marilù Oliva sui miti greci, si pensi al Re Lear in salsa americana che è Erediterai la terra di Jane Smiley (ne abbiamo scritto qui), o a Cassandra di Christa Wolf, Il canto di Penelope di Margaret Atwood, a Itaca per sempre di Luigi Malerba, a Memoria delle mie puttane tristi di Gabriel García Márquez. Ecco, Percival Everett vola molto, molto alto, non si limita certo a un omaggio. Rivisita uno dei grandi classici, datato 1884, della letteratura statunitense, lo rimodella, prende la tradizione e ci si confronta con coraggio, ma senza spocchia. I due protagonisti (per Tom Sawyer solo un cameo nelle prime pagine) sono gli stessi di Huckleberry Finn – ma Jim, che è la voce narrante ha decisamente più peso di Huck rispetto all’originale – e fuggono dalle rispettive oppressioni: lo schiavo agogna la libertà e sogna di riabbracciare Sadie e Lizzie, moglie e figlia («Tornerò a prendervi»), ma va via, rischiando la vita, perché ha scoperto che vogliono venderlo a un uomo di «Niuorlins»; il giovanissimo si è allontanato da un padre alcolizzato («Sobrio o sbronzo, quell’uomo gonfiava regolarmente di botte quel povero ragazzino»); mangiano quel che trovano, quel che la natura offre, tra frutta e animali, e poi danzano sul Mississippi, lo solcano, in un modo o nell’altro, e il fiume è tutt’altro che uno scenario di cartapesta, è un attore vivo, coprotagonista. Jim – che strada facendo affermerà identità e personalità, diventerà James, soppiantando l’anonimo “Jim” con cui è apostrofato – non è uno schiavo come gli altri, appunta pensieri su un taccuino, avendo imparato a scrivere, a leggere, lo aveva insegnato ad altri neri, e si capisce ben presto che l’istruzione – al pari del viaggio e della fuga – per lui è un passaggio esistenziale fondamentale, sul cammino dell’emancipazione e della libertà.
Una farsa di ironia, humor nero e grottesco
… i bianchi si aspettano che parliamo in un certo modo e non deluderli su questo fronte non può che esserci d’aiuto.
L’avventura e l’ironia, che sono due colonne portanti di Huckleberry Finn, contano parecchio anche in James. L’elemento satirico, in molti passaggi farsesco, si sviluppa molto sul piano linguistico – su cui aveva lavorato tanto anche Twain – poiché espressioni offensive, stereotipi e l’ignoranza dal punto di vista grammaticale e lessicale sono sfoggiati dagli schiavi, quando sono al cospetto dei bianchi, per proteggersi e proteggere; molti sono invece quelli che sanno parlare bene e Jim va anche oltre, conosce la Bibbia (considerandola uno strumento dei bianchi dominanti) le opere di alcuni filosofi (da Locke a Voltaire, passando per Rousseau), immagina di dialogare con loro, talvolta, di uguaglianza. Non la sola relazione significativa, visto che Huck, mentre finge di averlo come schiavo, finisce per vedere in Jim un amico fraterno, in certi passaggi perfino una figura paterna. Huck, del resto, più ragionevolmente rispetto al romanzo di Twain, è un ragazzino ingenuo, che poco o nulla sa della vita, Jim/James è invece un uomo fatto, padre di famiglia. E quando i due saranno costretti a separarsi, Percival Everett si scrolla di dosso la trama di Twain e prosegue per conto suo, prendendo di petto la questione razziale, affrontata con umorismo macabro e senso del grottesco, con uno sguardo non univoco alla contraddittoria realtà statunitense, non solo bianco o nera, ma più sfaccettata e sfumata, e con un desiderio di libertà, quello di James, che sfocia anche in una rabbiosa e vendicativa violenza, in una scia di sangue.
Sono l’angelo della morte, venuto a offrire l’agognata giustizia nella notte.
Fra truffatori e razzisti
Alcune figure con cui interagisce, suo malgrado, attraversando il Midwest americano, incarnano e prefigurano gli Usa che verranno, cioè dopo secoli di ingiustizie quelli attuali, di fragile democrazia, checché se ne dica, di razzismo intrinseco, di individualismo totale e insofferenza nei confronti del potere e delle istituzioni: ci sono un paio di truffatori, il Re e il Duca e i Virginia Minstrels, musicisti bianchi che si dipingono le facce di nero e cantano odiose canzoni popolari razziste composte da Daniel Decatur Emmett (riportate in sei pagine che precedono il romanzo). È una lettura profonda e stimolante, quella di James di Percival Everett, che ribalta Twain nella rappresentazione di Jim: c’è lui dietro molte “imprese” di Huck ne Le avventure di Huckleberry Finn, e non è superstizioso e ignorante ma colto e ambizioso, tanto da sognare di scrivere la propria storia. È uno scarto fondamentale, un passaggio chiave, è la cultura l’unica base di partenza sulla strada della libertà. La sua fuga in compagnia di Huck è qualcosa di dannatamente serio, da cui possono dipendere la vita e la morte, non c’è nulla di affascinante e romantico in questa odissea, che si conclude con l’ennesima fuga e l’ennesimo arrivo, un viaggio che sembra non finire mai.
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