Ne “Il Messia” Jean Grosjean, poeta e prosatore francese quasi sconosciuto in Italia, riscrive e immagina i quaranta giorni del Cristo tra la resurrezione e l’ascensione: un tempo trascorso principalmente a caccia di Dio. La vertigine di tornare a vivere, fra dubbi e lacrime, nelle pagine di un «Rimbaud con la scienza di Abelardo», come lo definì l’amico Christian Bobin
Intuiva che vivere era stato solo un’avventura ragionevole in confronto all’audacia di rivivere.
Tra i discepoli disorientati
Dal villaggio di Avant-lès-Marcilly, a un centinaio di chilometri da Parigi, seppe essere protagonista della vita culturale francese, senza esserne schiavo. La pubblicazione de Il Messia risale al 1974, con un protagonista che vive episodi che conosciamo (il ritrovamento della tomba vuota da parte di alcune donne, l’incontro con i discepoli di Emmaus), reinterpretati magistralmente, e colma alcuni vuoti con la telecamera fissa sui pensieri del Cristo, su dubbi (il Padre gli sembra assente, oltre che invisibile) e lacrime con cui fa i conti l’Agnello «che aveva preferito obbedire a Dio piuttosto che comandare agli uomini». Il Maestro torna tra i discepoli increduli e disorientati, più di una volta, s’imbatte negli arcangeli, ritrova Lazzaro. Riscrive e medita, Jean Grosjean, che accompagna Gesù sui luoghi della predicazione e della Passione, fino all’ascensione e all’incontro col Padre.
L’ultimo pellegrinaggio sotto le stelle
Il lirismo acceso e cristallino dell’autore segue Cristo su strade reali e fantastiche, tra amici e fantasmi, nella vertigine di tornare a vivere. La geografia di quest’ultimo pellegrinaggio sotto le stelle di un Gesù, fragile e allo stesso eterno, è talvolta puntellata da nomi di piccole località francesi, un ponte nello spazio e nel tempo per la buona novella e il messaggio di salvezza che, sembra volerci dire Jean Grosjean, travalica le epoche e riguarda tutti. D’ora in poi c’è un giro un “nuovo” scrittore francese, «Rimbaud con la scienza di Abelardo», per dirla alla Bobin.