Una pellicola che, sicilianamente, non si realizzò. Questo racconta il volume “Giacomo Pozzi Bellini – Viaggio in Sicilia (Estate 1940)”, curato da Arnaldo Bonzi e Domenico Ferraro. Il fotografo-regista sarebbe stato affiancato alla sceneggiatura da Nino Savarese, protagonista della cultura italiana del primo Novecento
Ho visitato molti anni fa il poggio di San Benedetto dove sorgeva la casa di villeggiatura di Nino Savarese. Tutto purtroppo è stato profondamente trasformato e deturpato. Resta però la vista straordinaria, da una parte verso l’alta valle del Dittaino, dall’altra verso l’altipiano della città di Enna, che lo scrittore aveva ribattezzato Petra, fonte di ispirazione, come è noto, per Sciascia e le sue Parrocchie di Regalpetra. Savarese (dei suoi libri, editi da Il Palindromo, abbiamo scritto qui, qui e qui) è stato uno dei protagonisti della cultura italiana del primo Novecento, una figura che fa parte di quella grande rete di intellettuali che hanno sostenuto la storia della letteratura siciliana dello scorso secolo.
Riscopro tra gli scaffali della libreria il volume fotografico Giacomo Pozzi Bellini – Viaggio in Sicilia (Estate 1940) edito nel 2013 dall’editore Squilibri, con una cura davvero preziosa di Arnaldo Bonzi, per le immagini, e Domenico Ferraro per i testi, volume che ha finalmente permesso, dopo tante disavventure che hanno tenuto queste fotografie lontane dalle stampe, di potere ammirare gli scatti di Pozzi Bellini realizzati tra agosto e settembre 1940, al fine di preparare un film sulla colonizzazione del latifondo siciliano. La cura della sceneggiatura della pellicola era stata, appunto, affidata al nostro Savarese che ospitò nella sua dimora di campagna il fotografo-regista per tutto il tempo dei lavori preparatori. Il film, sicilianamente, non si fece mai.
Nascita di un documentario
Siamo davanti ad un volume imprescindibile per riscoprire quegli anni e quelle trasformazioni, promesse più che attuate, e comunque importanti sul piano storico, delle quali restano tracce in alcuni borghi ormai fantasma o in altri ancora vissuti, come il borgo Cascino nei pressi di Enna.
Inoltre il volume è un tassello fondamentale per ricostruire la storia del fallito progetto cinematografico, ricostruzione che era stata già oggetto del sapiente volume di Liborio Termine edito da Sellerio nel 1987, Un eretico innocente. (A proposito di Sellerio, ricordiamo che Enzo Sellerio e Vincenzo Consolo più volte tentarono di pubblicare queste foto, senza avere fortuna.)
La lunga prefazione del curatore Domenico Ferraro riprende spesso le considerazioni di Termine, anche se in alcuni casi ne confuta le conclusioni, soprattutto a proposito delle relazioni intercorse tra Savarese, Cecchi e lo stesso Pozzi Bellini durante la stesura della sceneggiatura.
Vediamo di ripercorrere i punti salienti della vicenda. Su impulso di un importante burocrate fascista, Nallo Mazzocchi Alemanni, amico sincero di Savarese e direttore dell’Ente per la colonizzazione del latifondo siciliano, il toscano Pozzi Bellini si incarica di preparare un film documentario, sulla scia di suoi lavori precedenti, tra i quali spicca Il pianto delle zitelle (1939), opera molto amata, ad esempio, da Michelangelo Antonioni. Mazzocchi era un agronomo ed economista rurale di fama internazionale: siamo tra quegli intellettuali che, pur compromessi con il regime, erano ancora convinti, ingenuamente, di poterlo piegare a nobili fini.
Scatti di rispetto e dignità
Pozzi Bellini parte quindi per la Sicilia e per il suo misterioso entroterra, che allora come oggi, dobbiamo dire, resta terra sconosciuta ai più, negazione della Sicilia azzurra e solatia, da cartolina, frutto della grande svendita turistica di un luogo di storia millenaria. Nel profondo entroterra di collina che lentamente sale verso le montagne nei contrafforti appenninici dei Monti Erei, trova un mondo che di riforme e trasformazioni aveva disperato bisogno. Eppure negli scatti l’autore sa cogliere una dimensione di dignità che non sempre si associa alla ruralità premoderna del sud. Vengono ritratti volti, figure, paesaggi ma anche, ad esempio, la grande fiera del bestiame di maggio, svolta nella rocca occidentale dall’altipiano, dove viene ritratta una presenza ordinata di tecnici e specialisti, nell’enorme massa di animali in mostra. Ci sono naturalmente scatti che colgono la lontananza arcaica di quel mondo: la convivenza tra uomini e animali, i paesi immersi in una vastità vuota e dolente, ma, forse grazie ai continui dialoghi tra il fotografo-regista e Savarese, si percepisce una forma di rispetto, di amore: siamo già distantissimi dalla retorica propagandistica dell’iconografia rurale del regime, siamo nel territorio della ricognizione etnografica che, dopo la guerra, farà scoprire al mondo una civiltà antica – forse troppo – bisognosa di tutto e per questo destinata a scomparire.
Tra tutti gli scatti, restano nella memoria, oltre a quelli dell’immenso pascolo brulicante di armenti della fiera, i ritratti delle donne, vera presenza originaria, figlie della terra, di bambini senza infanzia, di sofferenza taciuta, di rari sorrisi e di fierezza ottusa. L’immagine forse più efficace resta quella delle scene di trebbiatura, con i cavalli in tondo a separare con la forza dirompente degli zoccoli i chicchi di frumento dalla paglia.
L’eretico innocente
Il film, come detto, non si fece mai. Il carattere di Savarese era, in definitiva, troppo lontano dallo stesso scopo che si prefiggeva il documentario e Pozzi Bellini lo capì presto, abbandonando il progetto: lo scrittore, “l’eretico innocente”, era troppo legato allo spirito e troppo poco alla tecnica e alle trasformazioni che pure reputava indispensabili. Quelle donne, quei bambini, quegli uomini avrebbero davvero beneficiato di quegli interventi o ne sarebbero stati vittime? Savarese, cercando senza riposo una risposta, sognava di garantire un fragile equilibrio tra uomini e storia. Ma la Storia non ha di questi riguardi.
Due anni dopo questi scatti, Vittorini, amico di Pozzi Bellini, sarebbe ritornato nella sua terra per riprendere il filo di queste indagini con Conversazione in Sicilia, insieme anche a Guttuso, altro intellettuale vicino a Savarese, che sempre più va considerato come uno dei più importanti autori sospesi tra primo e secondo Novecento.
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