Tutti scrittori morti, ma immortali, con libri più che rappresentativi, iconici. La scrittrice palermitana Daniela Gambino – il suo romanzo più recente è “La scighera”, ne abbiamo scritto qui – punta su alcuni grandi classici del Novecento, italiano e non, per i suoi suggerimenti di lettura. Un nuovo contributo alla nostra rubrica più amata (qui tutte le puntate precedenti)
“Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg (Einaudi)
Io sono la terza di cinque figli. E a casa mi chiamano pastaelenticchie, lenticchia, o lenti, un soprannome che sopravvive da cinquant’anni nel perimetro di casa dei miei genitori. Questo romanzo che indaga il quotidiano di una famiglia numerosa mi ha aiutata a essere la scrittrice che sono, leggerlo è stata una specie di epifania: quindi si poteva dare dignità letteraria al linguaggio più intimo che esista, quello dei soprannomi fra fratelli.
Una di quelle frasi o parole, ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici degli egiziani o degli assirobabilonesi, la testimonianza d’un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo.
Questo senso di appartenenza ogni volta mi commuove.
Leggerlo d’autunno vi preparerà alle réunion di Natale fra parenti, con una dose di affetto in più
“Amatissima” di Toni Morrison (Sperling&Kupfer), traduzione di Giuseppe Natale, cura di Franca Cavagnoli
Questo romanzo ti spacca dentro, intanto perché è scritto benissimo, con una lingua asciutta e semplice, perché la Morrison secondo me voleva arrivare a chiunque e scuoterlo come un albero, come l’albero tatuato sulla schiena della protagonista.
Poi perché affronta i temi di una sopraffazione inarrestabile, nel senso che non siamo riusciti nemmeno adesso a fermarla, che passa da generazione a generazione e urla il dolore di interi popoli.
Il romanzo riesce in tutto questo con una melodia e intensità poetica a cui è impossibile sottrarsi.
L’universo dei figli, anche senza legami di sangue, l’unica vera proiezione verso il futuro che ci è dato proteggere, ci riporta al dovere di continuare, cercare la libertà e migliorare il mondo.
Ci si salva così, dando amore, partorendosi ogni giorno e raccontando il dolore e la furia dei fantasmi.
“Full of life” di John Fante (Einaudi), traduzione di Alessandra Osti, cura di Emanuele Trevi
Con questo romanzo fate un pieno di acuta ironia.
A patto che non vi spaventi l’idea di dissacrare l’istituzione famiglia, mischiare la fama con la modestia e le lacrime con le risate. Full of life mette in scena la vita di uno scrittore che davanti agli affetti, ai genitori, all’arrivo dei figli, si rivela umano pari a noi: devastato dal panico. Con disinvoltura ci spiega che si può amare qualcuno senza abdicare al ruolo di marito e padre, anche se quel qualcuno ci irrita e atterrisce, che si può essere fragili, ma questo non ci renderà stupidi agli occhi degli altri, semmai irresistibili.
Si ride, ma con un fondo di malinconia perfetto per la stagione.
“Il rosso e il nero” di Stendhal (Newton Compton), traduzione di Ferdinando Martini
Uno come Stendhal con tanto di pseudonimo tipo nickname ci riporta al senso dello scrivere, quello di una volta, torrenziale, ricco di dettagli.
Io vi consiglio di riprendere in mano il rosso e il nero, un bagno in una scrittura ricca e sontuosa, descrittiva e piena di dialoghi e azione.
Ricordiamo il tempo in cui gli scrittori e le scrittrici non avevano il cinema o le serie Netflix come riferimento, non solo come fonte di ispirazione, ma anche come fine ultimo, ovvero pensare alle storia con il sogno di una trasposizione, una fiction in prima serata con il nome nei titoli tratto dal romanzo di …
Balzac non faceva di certo il filo alle produzioni televisive. La scrittura serviva a denominare e condurre in uno spazio immaginativo differente, la parola creava, nutriva l’immaginazione, se si faceva il filo a qualcuno, quello era il lettore, solo a lui si chiedeva complicità.
Per questo vi consiglio di leggere Stendhal: fatevi corteggiare spudoratamente da un grande scrittore.
Il rosso e il nero vi sedurrà senz’altro.
“Stringere la mano a Dio” di Kurt Vonnegut e Lee Stringer (Bompiani), traduzione di Giulio D’Antona
Questo libro è un saggio, con dialoghi equiparabili al più sublime dei romanzi, perché la storia che narra è straordinaria. Sembra un risvolto favolistico da sogno americano, ma è vera ed è dura. Lee Stringer, con un passato da senzatetto, ha scritto racconti di successo che gli son valsi attenzione di un altro mostro sacro con cui converserà in due occasioni, si tratta di Kurt Vonnegut. Sono due veri esemplari di rinascita umana per mano della cultura e letteratura.
Sono due autori che hanno conosciuto l’orrore e la difficoltà, l’uno la precarietà e i sottopassaggi riscaldati della Grand Central Station dove viveva distribuendo copie dello Street News (trovate i suoi romanzi tradotti da Nottetempo), l’altro la prigionia nel Mattatoio n.5 .
Il risultato, a partire dal titolo, è uno dei saggi più reali, utili, profondi, che siano mai stati pubblicati sul mestiere di scrittore, perché riuscire a mettere insieme una bella pagina è un po’ stringere la mano a Dio.
Da leggere, per ricordarsi che aprire un romanzo può salvarci dalle incombenze della vita.
“Una questione privata” di Beppe Fenoglio (Einaudi)
Beppe Fenoglio malgrado gli anni rimane il mio autore preferito.
Una sera l’ho scoperto e sfilato dallo scaffale di una casa sconosciuta e dalle prime battute ho capito cosa lo discosta da milioni di altri scrittori: quasi tutti, me compresa, sembriamo mossi da un piccolo ego tronfio che si svaga su meschinità da sublimare e consolare.
Beppe Fenoglio invece fa altro, è partigiano e scrittore, lettore vorace, un impavido della vita. La sua lingua unica è sorretta da malinconie, ossessioni, nebbie, lunghi cammini nelle langhe e poesia, fiumi in piena di poesia. Una travolgente, insostenibile, spiazzante poesia che riesce a infilare ovunque, nella morte, nel tradimento e nella fatica del corpo. E non finisce qui, perché aggiunge gli ideali schiaccianti, soprattutto per chi non ne ha, da farti stare male, da farti ricordare “cosa potremmo essere stati”.
Fenoglio scrive così perché sa cosa significhi credere nel bene del mondo. Cosa significhi lottare, restare sul campo, riconoscere i sentimenti validi, che siano per un vero amico o un amore struggente.
Giuseppe Fenoglio detto Beppe, morto a 41 anni per un cancro ai polmoni, ti aiuta a capire: “per cosa vale la pena vivere”.
Concedetevi questa dose di coraggio pagina dopo pagina, fate tracimare la densità di ogni impressione, lasciatevi investire da questo fiume di parole, tenete accesi sangue e muscoli, con Fenoglio si riesce ad attraversare indenni la brughiera, tirare fuori una sigaretta e fumarla a boccate avide mentre rinasce il sole. Garantito.
“Post Office” di Charles Bukowski (Tea), traduzione di Simona Viciani
La prima volta che incontro Charles Bukowski è sul comodino di un ostello, dimenticato da qualcuno.
Il libro era Post office.
La prima volta che leggo Bukowski ho 22 anni e a colazione mangio solo tè e due biscotti secchi.
La prima volta che leggo Bukowski credo di non voler sapere nulla di un tizio che lavora per dodici anni all’ufficio postale e la notte scrive romanzi per salvarsi la vita.
La prima volta che leggo Bukowski ho i crampi allo stomaco, viaggio in pullman e leggo senza sosta anche se ho la nausea.
La prima volta che leggo Bukowski i miei amici mi chiedono “molla il libro e andiamo al mare”, ma io non lo faccio e lo riempio di sabbia che tuttora conserva.
La prima volta che leggo Bukowski credo di averlo visto arrancare per le vie di Los Angeles, sotto la pioggia, con una borsa piene di lettere bagnate.
La prima volta che leggo Bukowski la sera vado a vedere un film all’arena con le infradito.
E anche se nessuno lo sa e il libro mi ha commossa, mi sento una che ha trovato un amico.
Non so se vi è mai capitato.
Mi sento così: meno sola nel mondo e con un libro in fondo allo zaino.
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