Chi assegna ad Elsa Morante un posto importante nella propria vita o, semplicemente, non può fare a meno di leggere, e magari rileggere, le sue opere, non rinunci a un nuovo esaustivo, sincero, non ossequioso rispetto al mito, saggio di Elena Porciani, docente universitaria di letteratura italiana: “Elsa Morante, la vita nella scrittura” (349 pagine, 34 euro), pubblicato da Carocci. Il volume sarà in libreria da domani e, per gentile concessione dell’editore e dell’autrice, pubblichiamo un breve estratto dell’introduzione
Io non esisto: la mia vita non ha alcuna importanza. Io non posso impedire alla gente di diffondere idiozie sul mio conto, ma non si aspetti da me che io le commenti. Mi auguro, come ogni scrittore, che mi si legga, e se lei vuol conoscere il mio pensiero più profondo, è nei miei romanzi che deve cercarlo (Galey, 1967, p.105, trad. mia)
Così Elsa Morante risponde a Matthieu Galey, noto giornalista e critico letterario francese che la intervista nel 1967 per conto del mensile “Réalites”. Sono affermazioni coerenti con la sua crescente ritrosia, dalla metà circa degli anni Sessanta in poi, a prendere la parola in pubblico non solo per difendersi dalle «idiozie» sul suo conto ma anche per presentare i propri lavori o soddisfare l’interesse della critica nei suoi confronti. Il tono è sin troppo perentorio, tuttavia, per non destare il sospetto che dietro una così radicale negazione della propria persona si celino ragioni più intime e dolorose rispetto all’insofferenza verso i detrattori o alla volontà di distinguere tra arte e vita privata. Anche questo l’obiettivo di essere identificata con la propria scrittura finisce per rovesciarsi nell’elusività «di una figura quasi leggendaria consegnata alla letteratura, e per molti versi autocostruita, della scrittrice misteriosa e sfuggente» (Zagra, 2019, p.8): un effetto paradossale che è difficile valutare quanto sia stato consciamente pianificato, ma che senza dubbio ha favorito la tendenza di alcuni biografi e testimoni a sostituire all’autrice Morante il personaggio Elsa, protagonista di un romanzo esistenziale dalle tinte melodrammatiche sin troppo simili a quelle di Menzogna e sortilegio. Ha scritto Lalla Romano (1993, p.29): «Forse più brutta che bella, Elsa appariva bellissima», secondo una trasfigurazione ammaliata che si avverte in effetti in non pochi ricordi e contributi.
Sono questioni che avremo modo di affrontare più esaustivamente già a partire dalle prossime pagine; preliminarmente, appare opportuno mettere in chiaro che di fronte al bivio di continuare a nutrire l’aura “morantesca” leggendo le opere nell’orizzonte di tale mitografia o di occuparsi, con movimento opposto, di Elsa Morante nella dimensione del suo lavoro intellettuale – un bivio originato, quindi, da un’ambivalenza insita nella sua stessa condotta – si seguirà in questo volume la seconda via: il focus del nostro discorso sarà sulla scrittrice e sulla sua attività autoriale, non sulla donna rivestita di fascino romanzesco. Ciò non impedirà che i capitoli che seguono contengano informazioni personali, scorci di vissuto e perfino qualche aneddoto, ma sempre con l’obiettivo di comprendere le circostanze in cui si sviluppa la scrittura di Morante. Se non mancheranno sorprese, queste scaturiranno in primis dall’esplorazione della sua opera, che si rivelerà assai più ricca dei cinque libri della maturità ai quali l’autrice deve la sua fama: Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), Il mondo salvato dai ragazzini (1968), La storia (1974), e Aracoeli (1982). Ma per avventurarci in questo intricato mondo autoriale conviene iniziare dalla fine: da un’iniziativa realizzata a trenta anni di distanza dalla morte di Morante, avvenuta nel 1985. (continua in libreria…)
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