Un accattivante e intricato dialogo tra la mistica ebraica e quella cristiana in “Cabbalisti cristiani” di Gershom Scholem, che ne esplora le radici storiche, ma non solo, a cominciare dal gioco incantatorio e pericoloso con cui fanno i conti i cristiani riscopertisi… cabbalisti. Un libro speciale soprattutto per chi ama passeggiare tra i solchi di due tradizioni che alla fine esprimono la bellezza di un unico grande Mistero… Nuovo appuntamento con la nostra rubrica Area 22 (qui tutte le puntate precedenti)
In un universo parallelo a quello di questo articolo, si potrebbe pensare a ciò che accadde all’interno della teologia cristiana a partire dal XVIII secolo in poi. Dopo la nascita e la sempre maggiore affermazione del metodo storico critico, si assistette alla sclerosi dell’area teologica più razionalista e ad un’ermeneutica biblica che andava via via svuotandosi di ogni contenuto spirituale, ancorché esegetico; come conseguenza – qualcosa di fisiologico – si assistette poco tempo dopo al formarsi di una fazione decisamente più reazionaria, interessata a ripercorrere vie tradizionali. Queste, che parevano essere state abbandonate, venivano ripensate invece con nuovo interesse, questa volta scientifico: si trattava, per certi versi, di conquiste già operate dall’antica tradizione interpretativa patristica, ma rivisitate con un nuovo approccio e nuove – insperate – possibilità di confronto.
Ebbene, anche il mondo dell’ermeneutica biblica ebraica conobbe, al suo interno, elementi di progresso e di ritorno (per alcuni le due parole non sarebbero da utilizzarsi in senso antinomico).
Si conceda misericordia a questo cappelletto che risulta alquanto stretto alla testa di una premessa così ingombrante, che però ha come scopo quello di prepararci indirettamente a ciò che tra un po’ proveremo ad accennare a proposito di Cabbalisti cristiani (Adelphi, 177 pagine, 15 euro) di Gershom Scholem, a cura e con un saggio di Saverio Campanini.
Retroguardia avanzata
Gershom Scholem, infatti, all’interno del suo immenso mondo culturale di riferimento (letterario, religioso, filosofico e mistico) è uno degli esponenti di quella che qui ci piace definire come una sorta di retroguardia avanzata: un esploratore che ama trincee già quasi seppellite dal passare dei secoli, eppure ancora perfettamente capaci di saper puntare il futuro (e l’eterno). Tale è la mistica ebraica, e la Cabala in modo particolare, suo ambito preferenziale e sua stessa vita, tra queste righe presa in esame attraverso l’occasione di questo libro e del suo autore.
Di lui, che presentiamo al suo minimum per non sforare, diremo innanzitutto che è già apparso altre otto volte tra i capitelli dell’Adelphi. Preferiamo elencarli tutti questi titoli, perché siamo certi che un’appassionata ricognizione possa aiutarci a trovare un maggiore significato all’opera di cui si parla in questo articolo. Così: Walter Benjamin e il suo angelo, 1978; Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio, 1998; I segreti della Creazione, 2003; Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, 2008; L’idea messianica nell’ebraismo, 2008; La figura mistica della divinità. Studi sui concetti fondamentali della Qabbalah, 2010; Le tre vite di Moses Dobrushka. Tre identità diversissime che segretamente convergono in una figura emblematica, di grandissimo fascino, 2014 (anche queste ultime due a cura di Saverio Campanini); e infine il carteggio con Walter Benjamin: Archivio e camera oscura. La testimonianza di una delle più intense e vitali amicizie del Novecento, 2019 (di questa, Campanini è stato il curatore dell’edizione italiana).
Un amico e un cultore
Avrete notato il ripetersi di un nome, anzi di due in particolare. Ci interessano entrambi. Il primo è quello di Walter Benjamin, la cui storia e la cui amicizia segnarono, in modo abbastanza evidente, la vita del nostro Gershom Scholem. Se una permutazione consonantica suscita sempre un certo stupore, per la capacità che ha di restituirti la verità in una delle tante sue possibili forme, l’amicizia è certamente una di queste. E nel caso di Scholem e Benjamin è talmente pregnante che non si potrebbe pensare a qualche riga, magari come questa, scritta per una qualunque ragione sul nostro Scholem, che non prevedesse l’apparire, insieme a questo nome, di quello del suo grande amico.
Come sorprendersene, esclamerebbe Saverio Campanini, cioè l’altro nome, la cui frequenza di apparizione ci appare cardiaca tanto è appassionata: studioso di fama internazionale, profondo conoscitore dell’opera di Walter Benjamin e noto per la sua indagine filosofica sul tema della mistica ebraica, Campanini è un vero e proprio cultore dell’opera di Gershom Scholem. Qui, in particolare, egli occupa un punto di compieta che, mentre da un lato si fa interprete dei tre testi di Scholem che costituiscono la gran parte dell’opera, e che lo precedono, dall’altro ci offre, proprio negli eschata di questo libro, la sua propria e preziosa sintesi. In essa, dopo aver letto Gershom Scholem, possiamo leggerne ancora, nella mediazione necessitata dal tempo. La disamina di Campanini, ai piedi di questo libro, permette a tutto il corpo testuale di camminare e di raggiungerci, perché ce lo riconsegna oggettivato, senza le trappole possibili della soggettività autoriale.
Un’intima natura sincretistica
Il testo di Gershom Scholem, infatti, che si addentra in un accattivante e intricato dialogo tra la mistica ebraica e quella cristiana, apre il sipario con una provocazione che anticipa già al lettore non solo il contenuto del libro, ma anche la sua intima natura sincretistica, e tutta la problematica legata all’entità di una tale natura; problematica dalla quale Scholem non appare immune: la Cabala, notoriamente associata alla più profonda spiritualità dell’ebraismo religioso, diventa oggetto, da parte del mondo cristiano, di una reinterpretazione e un’accoglienza che hanno del sorprendente.
Questo passaggio, se per certi versi rivela il disappunto di Scholem, che vi intravede un equivoco, un’opera truffaldina da ebrei convertiti, dall’altro è segnato da una certa ironia, una vera e propria ironia dell’assimilazione, un’ironia che appartiene ancora all’oggetto del discorso e non all’autore che ne parla: protagonisti quasi inconsapevoli ne sono quei pensatori cristiani che, in un’epoca di così grande fermento intellettuale, si trovano travolti da una profonda crisi di ordine spirituale (il contesto è quello del Rinascimento, un vero e proprio ribollente calderone di guizzi filosofici e umanistici) e scoprono una certa necessaria confidenza con un orizzonte fino a quel momento da loro inesplorato: la mistica (e la misterica simbolica) della Cabala.
La possibilità appare loro affascinante, in qualche modo provvidenziale, certamente nuova (anche se in sé stessa molto antica) ma si palesa presto il rischio – e questo è lo snodo polemico più importante del nostro testo – che il significato religioso mutuato dal linguaggio originale ebraico, e dunque carico delle sue figure proprie, delle sue rigorose metodologie e di tutto un apparato di strutture interpretative parallele (come il Talmud o le Yeshivot) possa rimanere distorto dall’angolo cristiano di rifrazione, da un punto di luce che, se da un lato contempla la condivisione di un amplissimo orizzonte di concetti, dall’altro si affaccia ad un certo inevitabile concordazionismo.
Proprio a partire da questo, Gershom Scholem non ci appare solo quale appassionato esploratore delle radici storiche del fenomeno (i libri che pocanzi abbiamo elencato ce lo mostravano già in questa veste), ma il suo lavoro di filtraggio all’interno di una fascinosa intersezione tra le due tradizioni, ebraica e cristiana, si arricchisce anche nell’ironico disvelamento di certe tensioni che, persino in modo drammatico e nella quint’essenza delle loro contraddizioni, danno comunque un carattere preciso all’impensabile intarsio di questo rapporto tra culture.
Stile e acuto senso dell’analisi
Forse, per non dire certamente, il Rinascimento diviene in modo abbastanza naturale il contesto adatto al verificarsi di una tale commistione che, in altri tempi ed epoche, non sarebbe stata né possibile né legittima. Peraltro, il fenomeno sopravvive al suo tempo genetico e ci restituisce la certezza che l’intuizione mirandoliana (il nostro Pico fu l’ingranaggio impazzito che, con quella follia policromatica e sincretistica tipica del suo genio, mise in moto tutta una serie di eventi e di confronti che, materialmente, determinarono la questione per come Scholem ce la mostra) non si sbagliava: il prodotto dell’originalità umana, che sa percorrere anche sentieri già battuti da altri, ha una sua forza di riproduzione spontanea.
Così, forte del suo stile incisivo e di quell’acuto senso dell’analisi che gli è proprio per mestiere e inclinazione, Scholem non si nasconde dietro l’alibi di un troppo facile arroccamento dietro la (sua) tradizione, ma ci svela in alcuni cristiani dei veri e propri appassionati alla Cabala, insieme alle loro affaticate alchimie tutte tentate a reinterpretare i fondamenti tradizionali di questa antica disciplina. La quale, cristianamente riconsiderata, non appare infatti come semplice emulatio ma, piuttosto, l’arte di un’appropriazione molteplice. Come se, su un improvvisato palcoscenico, ma a partire da un copione vecchio di secoli, la scena si riempisse ad un certo punto di attori che si trovassero ad impersonare ruoli capaci tanto di intrecciarsi quanto di stracciarsi: il suggeritore non saprebbe più cosa gridare dalla buca quando, per esempio, dalle quinte apparissero in scena i concetti di Trinità o di Incarnazione, a scambiarsi improbabili battute con il personaggio dell’inamovibile unicità del Dio ebraico.
Il tema del divino, perciò, diviene il fascinoso fulcro della narrazione saggistica di Scholem che, a questo punto, passa in rassegna le varie difformità teologico-concettuali per come queste emergono dal confronto tra le due tradizioni. La personificazione del Divino, per esempio, cui poco sopra ci riferivamo, nella fede cristiana supera di molto quella inaccessibilità che è, per così dire, la caratteristica precipua del misterioso En Sof; peraltro, nel tentativo di dargli una carne, chi potrebbe dire che l’improvvisato cabbalista cristiano non si sia sentito suffragato dal coinvolgimento emotivo del Dio jahvista?
Si tratta, dunque, almeno entro certi limiti, di contraddizioni indecidibili, in cui – e qui il testo è di grandissima onestà intellettuale – scopo di chi scrive non è quello di dare ragione ad una delle due fazioni, ma di chiarirne l’oggetto di incontro (e scontro): il Racconto che, pur avendo comuni radici, sembra condurre i suoi eredi verso mete sempre più divergenti, ricorda però loro, incessantemente, che tali radici sono così comuni da essere impedita, quasi per una regola epistemologica legata alla stessa rivelazione di questo Divino, che tale suddetta divergenza possa assurgere ad un assoluto. Sarebbe una forma di idolatria questo assoluto.
Il significato della fede
Pocanzi abbiamo già accennato, un po’ sotto le righe, come il saggio di Gershom Scholem acquisisca molto presto le caratteristiche di una vera e propria narrazione (si direbbe di lui – e chi, meglio di lui? – che il Racconto l’abbia davvero strutturato) che non manca di offrirci nemmeno l’aneddotica: racconti ed esempi di cabbalisti cristiani che, nella loro ascesa interpretativa, ad un certo punto si riscoprono capaci di revisionare la loro stessa esperienza di fede; e quello scontro che prima pareva coinvolgere solo due tradizioni religiose contigue ma diverse, qui diventa invece uno scontro interiore, esistenziale, drammatico tra la luce e le tenebre.
L’eccitazione umana dell’uomo in ricerca, che si scopre schiacciato tra il suo più intimo desiderio di lasciarsi integrare (da sé stesso e dal mondo) e quella sua connaturale alienazione da ciò che è altro da sé, si trasforma nella penna di Scholem in una riflessione più ampia sul significato della fede stessa. Qui si dà briglia sciolta all’ironia: unico genere letterario capace di evidenziare senza inguaribili sofferenze la paradossale dualità di queste esplorazioni, e questa volta è tutta ironia dell’autore che, più o meno, giunge alla conclusione che quanto più il cristiano cabbalista si prova nell’afferrare un misticismo che non può intendere del tutto, ecco che l’essenziale inteso di questo misticismo lo costringe a fare i conti con la sua fede forse troppo istituzionalizzata, storicamente dogmatica e – per tutta una serie di ragioni – non sempre disposta ad accogliere e riconoscere i segni della mistica (ebraica o cristiana che sia).
Se l’ironia si trasforma in dramma…
E già che pocanzi abbiamo parlato di attori e di ruoli, altro aspetto fondamentale che viene fuori dalla lettura del nostro autore è proprio il ruolo del linguaggio, come pure della forza dei simboli in entrambe le tradizioni. La Cabala ebraica, che con i segreti del suo linguaggio e le seduzioni del suo “molteplice” sembra ripresentare ogni volta la tentazione originaria alla conoscenza, invita i cristiani riscopertisi cabbalisti ad un fascinoso gioco intellettuale, tanto incantatorio quanto pericoloso. Qui, l’ironia cui prima accennavamo si trasforma in dramma: l’astrazione dei termini cabalistici, il loro esautoramento dal contesto originario proprio, può produrre tensioni esistenziali più che teologiche. È qui che Gershom Scholem si fa latore di un avvertimento contro il rischio di un vero e proprio imperialismo teologico, la risultante di una semplificazione a tutti i costi dove un orizzonte complesso come quello della Cabala e della sua interpretazione venga a forza trasformato nell’edizione ridotta di una spiritualità che, per quanto densa di significato, appare ben più popolare e a portata di mano, fatta per quella folla di poveri di spirito per cui è pensato – ad esempio – un discorso della montagna.
L’avvertimento, implicito ma chiaro nell’intenzione dell’autore, diviene un vero e proprio invito rivolto al lettore, perché questi possa riflettere su come tali incroci, tipiche ingegnerie genetiche dell’Occidente, possano di fatto produrre un impatto sulla comprensione della moderna spiritualità. La prosa di Gershom Scholem, mai del tutto sacrificato alla saggistica anche se intrisa di quell’erudizione che da lui ci si aspetta, riesce a mantenere viva l’attenzione di tutti noi, che in fondo amiamo passeggiare per quei rari sentieri tra il mare e la montagna, come tra i solchi di due tradizioni che, assumendo contorni così dissimili, alla fine esprimono la bellezza di un unico grande Mistero, che non è mare e che non è montagna. Perché riesce ad essere entrambi.
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