Galardini, personaggi indimenticabili e un piccolo mondo antico

Si sente vibrare la Liguria, con le sue contraddizioni, in ogni riga di “È atroce la luce”, secondo romanzo di Stefano Galardini, che mette in scena la comunità di un immaginario paesino e una coppia consolidata, dalla vita semplice e faticosa. Quasi un giallo di segreti e misteri che riemergono dal passato, un canto malinconico, con echi di Biamonti, ma una cifra tutta sua…

Quale storia potrà mai svelarsi dietro un titolo evocativo e a tratti ossimorico come È atroce la luce (304 pagine, 18 euro)? Otto edizioni porta in libreria il secondo romanzo di Stefano Galardini e consegna ai lettori non solo una storia, ma un mondo intero. Al centro due personaggi indimenticabili, Giuà e Rea, un paesaggio nel quale si radicano tutte le esistenze narrate, e una trama sorprendente, cucita con un’abilità che, nel far vedere e nel celare, riesce a sconcertare. È atroce la luce è un romanzo che decide di calarsi nelle profondità: non c’è solo un percorso da inseguire tra piani temporali, ma un interrogativo che si annoda a quella terra dove le vicende si svolgono. Echi di Biamonti, malinconica tenerezza di cose sull’orlo della fine e asprezza, incattivita e miope, anche questa tutta ligure: sono queste le piste individuate con sorprendente rispecchiamento da un recensore poco oggettivo, che a quella terra appartiene e l’ha sentita vibrare in ogni riga.

Nel mondo narrativo di Giuà e Rea

Giuà e Rea: la misteriosa bellezza di una coppia consolidata che, come tutte le coppie, si tiene insieme sul segreto. Lui, il marito, uomo buono e mite, intensamente legato alla terra tanto da aver coltivato, e realizzato, il sogno di un appezzamento che, spaccandogli la schiena di fatica, lo ha reso ogni giorno consapevole del proprio ruolo nel mondo, e forse felice. Lei, la moglie, creatura selvatica, piedi scalzi da una vita, un’irrequietezza e un temperamento ribelle che in Giuà ha trovato rifugio, pace e futuro. I due vivono dei frutti del terreno ottenuto con i sacrifici di una vita, il Roveto, sui ritmi naturali del quale hanno improntato la propria esistenza.

È una vita difficile, semplice, e forse per questo desiderata, ma è anche innervata di piccoli segreti che si intuiscono e che, col crescere della pioggia che arriva nelle prime pagine del romanzo, gonfiano come rii e torrenti, saturando il sistema, e finendo per sfondare gli argini. Le sequenze di eventi che, letteralmente, travolgono i due protagonisti e la costellazione di personaggi che ruota loro intorno portano a galla misteri del passato che sembravano ormai sepolti e che invece si rivelano per magma ancora vivo, scottante, pronto a incendiare la comunità e i due protagonisti.

Alle prese con la piena, reale e metaforica, Giuà e Rea si svelano e si nascondono nel legame che li tiene insieme da quando erano ragazzi, ed è così che li conosciamo meglio, che scopriamo l’articolazione sotterranea del loro rapporto. Per mostrarci questa rete invisibile, Galardini lavora su diversi piani temporali che alternano i fatti drammatici dell’oggi, cui assistiamo insieme  ai personaggi per la prima volta, a pagine di anni passati che, come tessere in un puzzle, illuminano i retroscena e chiariscono rapporti e posizioni, arricchendo i personaggi e facendone delle figure meravigliosamente complesse.

Le radici, il paesaggio, la terra

Siamo negli anni Novanta, nell’immaginario paesino di Morre e, sebbene nessuno lo dica mai in maniera diretta, capiamo di essere incuneati in una di quelle vallate che fendono la costa ligure risalendo verso le montagne della Resistenza. Tutt’intorno, ulivi aggrappati a una terra rocciosa, ammansita con i terrazzamenti: lavoro di sforzi continui dedicati a una terra che per sprigionare la sua bellezza segreta chiede tantissimo, assorbe la vita intera, e a volte tradisce, incitata dalla pioggia. Sono tratti decisi, quelli di Galardini, e riescono a disegnare il profilo di una terra che è il suo paesaggio, e viceversa. Terra dove l’uomo ha da sempre inciso il suo segno, terra che ha accolto, e respinto. Terra che va conquistata, ma regala una felicità che, inspiegabilmente, è così semplice da sparire spesso dietro false credenze, errori, testardaggine, isolamento.

Nel carattere della terra, che è insieme aspra e bellissima, si ritrovano e si spiegano anche i caratteri dei personaggi che Galardini mette in scena con grande talento, l’intera comunità di Morre, con i suoi tipi e i suoi misteri, i temperamenti e gli agenti che faranno detonare le cariche della trama. Una contraddizione dietro l’altra, l’autore riesce a raccontare un congegno sociale scolpendo le figure con atteggiamenti, battute, occhiate che ne restituiscono la complessità vibrante. L’asprezza che diventa cattiveria, la fatica che inacidisce, il malcostume che si avvinghia sull’onestà di fiori e frutti, rischiando di soffocarli.

Siamo in Liguria, non potrebbe essere altrimenti: basta guardarsi intorno, oggi, per scoprire in una terra fragilissima i passi falsi di ieri. Terra agricola, benché questo profilo, che pure è segnante, si conosca poco. Terra di fatica, di frugalità, a volte di espedienti, ma anche di cuori che vedono meglio degli occhi, animi coraggiosi e resistenti. Una terra di contraddizioni che dividono chi resta e chi se ne va, dove a volte sembra che niente possa cambiare, e dove la luce può farsi da incantevole ad atroce perché conserva insieme la quiete e il suo opposto tormento.

Cosa resta di quel piccolo mondo

Ci sono i passeur, i contrabbandieri di confine, la luce che assume personalità e diventa insopportabile nella sua pura bellezza ferita dall’uomo, e ci sono il paesaggio della fatica, i fremiti elettrici e gli squarci della pioggia, la coerenza di un piccolo mondo che sembra fatto per esistere fuori dal tempo: Biamonti, come si diceva, risuona spesso. Tuttavia, Galardini insegue un suo interrogativo, probabilmente anche generazionale, attraverso una storia che si scoprirà essere quasi un giallo, con il suo segreto da tirare fuori dal fango, il suo scheletro – per davvero – sepolto e tornato in superficie con il carico prezioso di una vicenda del passato classificata come chiusa.

È una storia di un tempo che si chiude, canto malinconico che risuona in una valle flagellata dalla speculazione – sta arrivando l’autostrada, e cambierà i connotati del paesaggio, turbando l’apparente quiete del borgo – tra anime piegate dalla vita, egoismi rancidi, la serenità di piccoli momenti effimeri, e la luce che abbraccia tutto, implacabile. La luce che a volte va via, come l’elettricità per la tortuosa strada del Roveto, luce atroce di segreti inconfessabili, luce dell’amore e della speranza, quella negli occhi di Giuà che copre i fiori per ripararli, pota gli allori, si affida ai riti della quotidianità, sempre consapevole che intorno tutto è fragile, e potrà cambiare: la terra è così.

Un plauso, infine, alla “confezione” editoriale di 8tto edizioni (ne abbiamo parlato qui) che, oltre a una copertina perfettamente calata nella storia, sceglie di solleticare la curiosità indicando in quarta, quasi come un farmaco, le indicazioni che meglio rappresentano il lettore adatto, la posologia, ma anche gli effetti collaterali. Di veri effetti collaterali non ne sono stati riscontrati. La profonda empatia, lo svelamento quasi accecante della luce insopportabile, l’improvvisa chiarezza nella catena di tracce disseminate con grande capacità narrativa e la conoscenza intima di un “piccolo mondo antico” arroccato in una Liguria che sprofonda sono le uniche, benefiche, conseguenze riscontrate.

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