“Sto mentendo. Un caso per Ilia Moncada” di Maria Elisa Aloisi è un legal-thriller ambientato in una Sicilia colma di cultura e umanità, un romanzo aperto al mondo, ma attaccato allo scoglio isolano. La scena principale è un tribunale dove si svolge un processo per omicidio, in cui l’avvocata protagonista non crede che il suo cliente sia innocente…
In epoca di fake news, di post-verità e di nuovo realismo, il tema della verità, e per contro della menzogna, è diventato talmente centrale da essersi imposto negli ultimi anni come oggetto di riflessione e indagine. Bugie, inganni e menzogne in letteratura abbondano in tutte le forme e sfumature. La lista di bugiardi e mentitori sembra davvero infinita: l’Odisseo omerico, il Miles Gloriosus latino, i bugiardi di Dante del canto XXX dell’Inferno, quelli di Boccaccio e di Chaucer, i mentitori di Corneille e di Goldoni. Per citarne alcuni. Menzogne, inganni, bugie e bugiardi, solitamente condannati tanto dalla morale filosofica quanto da quella comune, sono in letteratura così onnipresenti non solo o non soltanto perché la menzogna è un fenomeno umano rivolto agli umani, come è pure la letteratura, bensì perché strutturalmente, e da un punto di vista squisitamente narrativo, essi sono indispensabili e irrinunciabili affinché la storia stessa, il plot dell’opera, si avvii o si complichi, proceda o si risolva, o comunque si concluda; affinché, insomma, l’opera stessa diventi in qualche modo, e nel suo specifico modo, possibile.
Un buon motivo per mentire
Maria Elisa Aloisi sembra aver costruito l’intera struttura portante del suo legal-thriller, pubblicato nei Gialli Mondadori, intorno al bisogno o necessità o volontà di mentire di ognuno dei protagonisti che, a vario titolo, entrano nella scena principale dell’opera, ovvero il tribunale dove si svolge il processo per omicidio, vero palcoscenico di tutta la narrazione. Ognuno di loro sembra avere un buon motivo per mentire. Per certo, Ilia Moncada ha la determinazione per costringere tutti e ognuno di loro a dire la verità.
Sovente l’opera stessa può esistere solo grazie alle bugie che essa contiene e su cui si basa, e questo vale addirittura per il genere letterario di appartenenza e le convenzioni che lo regolano, se solo si pensa al thriller, al detective story. Anche da una prospettiva ermeneutica, inoltre, credere o non credere a bugie e bugiardi da parte degli altri personaggi in senso intradiegetico e da parte dei lettori in senso extradiegetico, oppure essere in grado di smascherare o meno menzogne e mentitori, implica importanti e talvolta decisive conseguenze sia a livello di storie e narrazioni, sia – in maniera molto più complessa – a livello di interpretazione del testo.
«Però quando credi che il tuo cliente sia innocente, anche senza volerlo ti impegni di più. O no? – È vero – Fui costretta ad ammettere mio malgrado». Sono Ilia Moncada e sua zia Ofelia a raccontarsi gli sviluppi sul caso di omicidio che la ragazza sta seguendo come legale dell’imputato. Al quale non crede. Il quale non le piace. Eppure svolge lo stesso il suo lavoro. Non con lo stesso impegno di quando segue un cliente che ritiene innocente ma lo fa, ponendo in essere, in un certo qual modo, un grande inganno basato sulla menzogna.
Avvocato istrione e fine dicitore
Ogni avvocato, nell’esercizio della sua professione, mente. Ciò accade tutte le volte che sostiene le ragioni del proprio assistito che sa essere dalla parte del torto.
Cicerone dopo dato un consiglio al senato o al popolo, da mettersi in opera anche il medesimo, dopo perorata e conchiusa una causa, ancor di una piccola eredità, si poneva a tavolino, e dagl’informi commentari che gli avevano servito a recitare, cavava, componeva, limava, perfezionava un’orazione formata sulle regole e i modelli eterni dell’arte più squisita, e come tale, consegnavala all’eternità. Così gli oratori attici, così Demostene di cui s’ha e si legge dopo 2000 anni un’orazione per una causa di 3 pecore: mentre le orazioni fatte oggi a’ parlamenti o da niuno si leggono, o si dimenticano di là a due dì, e ne son degne, né chi le disse, pretese né bramò ne curò ch’elle avessero maggior durata.
È una lamentela comune in epoca di classicismo, resa icasticamente dal giovane Leopardi: il sostanziale silenzio dei moderni retori è contrapposto agli artifici, destinati all’eterno, cesellati dagli antichi, fosse pur col pretesto di una causa intorno a poche pecore. Sempre in Italia, a Novecento inoltrato, la fortuna dell’oratoria avvocatesca si assestò al livello della cultura popolare, soprattutto al Sud.
Il diritto, gli avvocati, le cause in tribunale lo colmavano di estasi e delizia. Sapeva a memoria i nomi di tutti gli avvocati della provincia, e i brani delle loro cause più celeri; e in questo non era il solo, perché l’amore per l’oratoria forense è quaggiù abbastanza generale
L’avvocato è in tutto e per tutto un uomo di teatro, di volta in volta istrione, guitto, fine dicitore.6 Il causidico fu spesso, lungo i secoli, assimilato all’attore: un modo forse per nobilitare il secondo e mettere in dubbio la lucidità argomentativa del primo.
Personaggi che si raccontano
Quasi ovunque nei testi letterari ci imbattiamo in private o pubbliche arringhe che sanno d’aula di tribunale e molto familiare in Italia è la satira di avvocati e notai avidi ma, nel libro di Maria Elisa Aloisi, è intorno alle parole di rei e correi che si potrebbe lungamente argomentare. Egualmente adirandosi.
Sto mentendo. Un caso per Ilia Moncada (312 pagine, 17,50 euro) è un legal-thriller ambientato tra luoghi che devono essere molto cari all’autrice. Traspare una Sicilia ricca di tradizioni, cultura, folklore, umanità. Anche nell’opera di Maria Elisa Aloisi si ritrova la singolarità presente in molti scrittori siciliani che hanno saputo coniugare l’esterofilia e l’apertura al mondo con la tensione, all’inverso, centripeta che domina le loro opere, ossessivamente legate al tema dell’isola, e le loro vite, crocefisse a quella terra amata e odiata, o quanto meno condannate a concludervisi, in sconsolati ritorni che hanno talvolta lo stesso senso, di bruciante sconfitta e di astiosa diffidenza, dell’attaccamento delle “ostriche” verghiane allo “scoglio”.
Nel testo sono presenti numerosi dialoghi, le descrizioni sono poche e brevi, seppur esaustive. Sembra quasi volontà dell’autrice lasciare siano gli stessi protagonisti a raccontare la storia, attraverso il resoconto della loro vita, delle esperienze, le emozioni, i sentimenti, gli accadimenti. Che siano sempre loro a trascinare il lettore nelle anse di una storia che si snoda tra le vie e le mura di una città che trasuda la sua sicilianità cosmopolita da ogni angolo, da ogni poro. Esattamente come accade per i suoi personaggi, protagonisti del romanzo.
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