È un documento sconvolgente “Anus mundi” di Wieslaw Kielar, da affiancare alle maggiori opere dall’interno della Shoah, in cui non si risparmia nessun dettaglio rivoltante da Auschwitz. Prigioniero politico della primissima ora, dai mille mestieri nel campo, il narratore osserva e vive abiezione e disperazione, anime indurite e indifferenti, ma anche solidarietà e amore…
Sulla sua lapide si legge: “Wieslaw Kielar 1919-1990. Uomo di lettere. Prigioniero di Auschwitz n. 290”. Arrestato nel 1940 e deportato dalla Gestapo nel campo più tristemente famoso, Wieslaw Kielar era un polacco che finì tra i prigionieri politici, fra i primissimi a essere internato, quando Auschwitz era aperto da pochi giorni. Sopravvisse al terrore, al sadismo, alla fame, al potere di vita e di morte che avevano coloro che lavoravano nei lager, a ricoveri in infermeria. Vide la morte in ogni sua forma possibile, immaginabile e non, brutale e crudele, di stenti, di epidemie, di fame, di soffocamento da gas. Assistendo a una lotta e combattendola. Chi sopravvisse, suo malgrado, lo fece, ai danni dei tantissimi che non furono in grado, taluni con comportamenti disdicevoli. Libro dal titolo inequivocabile, Anus mundi (419 pagine, 22 euro) è l’ennesimo sconvolgente documento dall’inferno in terra, opera di Wieslaw Kielar, che ha come sottotitolo ineludibile Cinque anni ad Auschwitz-Birkenau. Lo pubblica la casa editrice Giuntina, grazie alla traduzione di Alessandro Pugliese del testo originale, edito in Polonia nei primi anni Settanta, e qualche tempo dopo in Germania. La prefazione è Wlodek Goldkorn.
La morte e l’arte di rimanere in vita
Polacco non ebreo, Wieslaw Kielar nulla risparmia in una novantina di capitoli fitti e realistici, nessun dettaglio rivoltante, ferite raccapriccianti, vessazioni e percosse, umiliazioni e violenze vigliacche, corruzioni e contrabbandi. Prima falegname, poi inserviente medico, ancora caposquadra («avevo anche imparato a fingere di lavorare in modo efficiente») nella costruzione di una strada nei pressi di un grande impianto chimico, e poi attendente infermiere e perfino falsificatore dei certificati di morte (malattie e non esecuzioni, richiedevano le autorità naziste), l’autore di Anus mundi racconta abiezione e disperazione, ma anche la «difficile arte di rimanere in vita nel campo» e le tante anime indurite e indifferenti di cui, giorno dopo giorno, si popolava il lager. Tutt’altro che marginale è il resoconto del dolore e del male scaraventato addosso agli ebrei polacchi, slovacchi, greci, francesi, ungheresi. Innumerevoli i rischi collezionati negli anni di permanenza al campo per Wieslaw Kielar, che riuscì a sopravvivere fino alla liberazione, in modo rocambolesco in più occasioni, in particolare, una volta: convalescente dopo il tifo, rischiò di finire trasferito a Birkenau, dopo una selezione che avrebbe condotto i malati alle camere a gas.
C’era anche l’amore…
Sprazzi di solidarietà e d’amore, come sole da piccole fessure, germogliavano anche nel lager. Colpisce in mezzo a tanto orrore il breve sentimento platonico del narratore per Sylvia, bellissima diciassettenne, un suo flirt con Halina e con Wanda, un’infermiera, e l’appassionato amore del suo amico Edek Galinski («stavamo programmando di fuggire dal campo») con l’ebrea Mala Zimetbaum. Saranno loro due a tentare la fuga, disinnescata e con tragiche conseguenze. Proprio la vicenda di questo amore, che ha il suo spazio nei capitoli finali, è in realtà il nucleo originario del libro, un racconto con cui lo scrittore negli anni Sessanta aveva partecipato a un concorso. Anus mundi è un libro che meritava d’essere scoperto e che, attraverso la sua spietata ricostruzione, raggiunge vette di grandezza letteraria e umana, assolutamente analoghe alle più famose opere dei più importanti scrittori della Shoah e dei testimoni in prima persona dell’esperienza concentrazionaria.