Incomunicabilità e sottomissione, il “flusso” di Sarah Bernstein

Il destino di obbedienza e compiacenza di una donna abituata a vivere nell’ombra si compie tra le pagine di “Esercizio di obbedienza” di Sarah Bernstein. Richiamata nella terra d’origine per prendersi cura di un fratello, non è accolta, anzi è implicitamente accusata come responsabile di alcuni eventi grotteschi… 

Da quando è nata è stata addomesticata all’obbedienza e alla mansuetudine. Nella famiglia d’origine, sorella tra numerosi fratelli, tutti le spiegano come comportarsi e soprattutto come non comportarsi: abbandonare l’idea che potrebbe essere artefice dei propri pensieri e del suo destino in favore di un’indole servizievole e improntata all’esecuzione dei compiti impartiti. Adottate queste regole senza ribellarsi ma con compiacenza, ella vive non come individuo ma come il riflesso della volontà altrui.

Per questo non esita un istante quando il fratello maggiore avanza il diritto di richiamarla nel suo Paese per prendersi cura di lui e della sua casa dopo aver divorziato con la moglie ed essere rimasto solo. A lei il compito di provvedere a tutti i suoi bisogni.

Sarei diventata leggibile, mi sarei appiattita e dispersa, avrei abitato un “io” composito, rifiutando il piano della mia percezione individuale. Ecco. Ingoiare ogni aspettativa sulla mia esistenza futura e vivere adattandomi alle circostanze di un altro. L’attenzione come devozione.

I nomi cambiano, le cose no

Non conosceremo mai il nome di questa donna, così come quello di nessun altro personaggio di Esercizio di obbedienza (168 pagine, 15 euro) di Sarah Bernstein, tradotto da Andrea Berardini ed edito da Codice. Non sappiamo in che periodo precisamente si svolgano i fatti, solo che siamo in una «contemporanea era della nostalgia». Non conosciamo il nome del Paese in cui lei si reca per dare assistenza al fratello, un Paese del Nord, freddo i cui abitanti «avevano volti bianchi e chiusi». Rimane tutto un po’ sullo sfondo forse perché lo sfondo non è importante e tale deve restare, perché per una volta i riflettori saranno puntati su una donna abituata a vivere nell’ombra. Il focus è su i suoi pensieri e le riflessioni che scaturiranno dagli avvenimenti cui andrà incontro in questa nuova terra che, nonostante sia quella dei suoi avi, sembra rifiutarla e non volerla accogliere in nessun modo. Ma perché? La donna si sforza di cercare una spiegazione ragionevole agli strani comportamenti adottati dai cittadini, anche colpevolizzandosi come è solita fare, ma un motivo razionale non c’è e tutto prosegue in una escalation degenerativa.

Ciascuno di noi, su questa terra devastata, esibiva una perfetta obbedienza alle forze di gravità locali, scegliendo ogni giorno la via più semplice, cosa che, per quanto del tutto umana e comprensibile, era al contempo il modo d’agire più barbaro e abominevole.

Una tensione nascosta

Tutto ruota intorno alla superstizione, all’incomunicabilità che accresce l’incomprensione e ai giochi di potere e sottomissione che creano strani equilibri e dinamiche.

Proseguendo nella narrazione il mistero non si dipana, piuttosto è alimentato da grotteschi accadimenti che coincidono con l’arrivo della donna nel Paese, rendendola inevitabilmente responsabile: la gravidanza isterica di una cagna, l’inspiegabile follia delle vacche, la morte di una pecora mentre partorisce il suo agnello, sono alcuni degli episodi macabri e simbolici di cui la protagonista sarà silenziosamente ma incondizionatamente accusata.

Le pagine si susseguono intrise di una tensione palpabile ma sfumata, mai esplicita o violenta. Le calunnie sono subdole e silenziose, ma non per questo meno efficaci e penose. La percezione del sentirsi progressivamente annullati viene assorbita angosciosamente dal lettore in un clima quasi spettrale che ricorda le atmosfere indefinite e nebulose del Rumore bianco di Don DeLillo.

La forma dell’obbedienza

Siamo nella mente della protagonista che più che raccontare i fatti, ci accoglie nel privato delle sue riflessioni più intime: proprio come i pensieri nella nostra testa, che si susseguono in balia di quel sentire momentaneo, apparentemente caotici ma condotti dall’urgenza della coscienza. In funzione di ciò la prosa è fitta, non lascia molto spazio tra i capoversi e non ha tempo di far caso alla punteggiatura. I periodi non terminano dove convenzionalmente dovrebbero, e la scelta di una virgola al posto di un punto costringe il lettore a rincorrere le parole fomentando il pathos.

Ma non per questo viene tralasciata la forma: l’effetto impattante è raggiunto anche grazie ad uno stile quasi arcaico dai toni solenni.

Non c’è neanche un dialogo. Tutto quello che dobbiamo sapere ci viene detto dalla donna, che nel suo flusso di coscienza fa anche un resoconto narrativo, obbligando il lettore a fidarsi delle sue parole, a crederle e obbedire… ma attenzione perché la compiacenza, «a compiacenza di chiunque, era la via più sicura e rapida verso il proprio sterminio».

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