Giulia Caminito, un abisso di nulla nel vacillare di tutto

Torna al romanzo Giulia Caminito, dopo il Campiello ottenuto con “L’acqua del lago non è mai dolce” (ne abbiamo scritto qui). E in modo magistrale e con sguardo acuto, ne “Il male che non c’è”, restituisce il dolore di un bambino diventato ragazzo, il mal di vivere di un trentenne tra ansia e ipocondria, precariato professionale (nell’editoria) ed esistenziale. Sopraffatto da fragilità e indolenza, con pochi ricordi di luce nell’infanzia, a cominciare da un amato nonno

C’è un blocco: è un bolo, un uovo, tondo e insieme spigoloso, non va giù e irradia malessere, debilita il futuro, sgonfia la determinazione, sbarra e infanga. A doverlo gestire è Loris, trentenne protagonista di Il male che non c’è (272 pagine, 18 euro), il nuovo potente romanzo di Giulia Caminito pubblicato da Bompiani. Una storia che è racconto lucidissimo dello snodarsi dell’ipocondria, narrazione dell’ansia paralizzante, così ingombrante da funzionare come una zavorra. Tanto che la vita di Loris si arena, impantanata nelle sabbie mobili di un’esistenza irta di nodi. C’è il precariato, quello professionale ma anche quello esistenziale, c’è una ferita irrisolta, vibrazioni di paure, abbagli della mente. Una selva oscura che l’autrice esplora con grande abilità nel corpo e nella mente di un trentenne nella Roma del mondo contemporaneo.

Libri, corpi e precariato

Loris è vorace di libri: non si ciba di letture per passione, ma per colmare dei vuoti. Lettere e parole sono una coperta di Linus che avvolge, ma finisce per strozzare con spire avvolgenti, fino a scorporare persino il senso. Segnale di un’ossessione, una delle tante di cui Loris è vittima. È chiaro fin dal clamoroso incipit di questa storia, che descrive con rara concretezza la sensazione di un dolore invisibile, ossimoricamente solido come un guscio d’uovo, che «è ovale, è cemento, è incredibile che esista e occupi spazio». Eppure è così.

Lo sa bene il protagonista, un trentenne che invece di conquistare e progettare attivamente la propria vita, reagisce voltandosi a un mondo storto che fa paura, che schiaccia e soffoca. Loris ha una fidanzata storica che chiama Jo, in onore al piglio deciso e vitale della più celebre Jo di Piccole donne, e un lavoro, anzi uno stage, in una casa editrice che lo sfrutta. Sembra un cliché, talmente è una storia radicata nell’immaginario attuale, ma è una situazione che tanto peso ha nello stato angosciato di Loris, consapevole che «per chi si occupa di libri pare non ci siano mai soldi, mai certezze», cristallizzato, così, dentro una staticità che lo divora. Invece di dare spazio alla relazione con Jo e di gestire quella con il suo pur traballante incarico professionale, Loris si fa avviluppare da un’ansia che, come una valanga, a ogni giro si fa sempre più pesante, oscura, incombente. E mentre viene giù, disfa: l’autodeterminazione, le relazioni, la salute, almeno quella percepita, la voglia di vivere.

In un perfetto equilibrio tra crudo realismo del corpo e sinistre irrazionalità dettate dall’ansia, con maestria Giulia Caminito affonda le mani nelle viscere di Loris, che risuonano in ogni organo della musica inquietante dell’ipocondria, della patologia. Il protagonista diventa sempre più ossessionato dal proprio corpo: individua dolori, cerca mali per poter additare cause concrete, smentire lo spettro dell’ansia portando prove tangibili che potrebbero dare una risposta, ma che tuttavia sfuggono. Il dolore grida a vuoto, contorcendosi nelle viscere: intacca i pensieri, oscura il futuro, alimenta la fobia dell’affrontare la vita.

Catastrofe in due tempi

Pregio inconsueto di questa storia è portare il lettore dentro un’ossessione attualissima che il protagonista non vede, dunque non riconosce. L’operazione del romanzo funziona proprio per questo: il male che non c’è è la molla che scatena il tormento di Loris. È una concausa di traumi dell’infanzia, mancate elaborazioni, solitudine, precariato, senso di inadeguatezza. Un calderone di stati d’animo che fagocita lo stesso protagonista. Il quale, da tempo, con la fervida immaginazione che lo caratterizza, ha dato un volto e delle sembianze alla sua ansia.

Catastrofe – mai nome fu più azzeccato – è un fantasma della mente, cangiante come un personaggio da palcoscenico che, ogni volta sempre più esageratamente, si materializza a sostegno degli incubi di Loris, lo tiene per mano, lo accompagna, esacerbandosi fino alla disfatta silente. Fino allo sfinimento.

Non è sempre stato tutto così: la narrazione, che procede seguendo i due filoni temporali di Loris oggi e del Loris bambino, percorre le due vie cercando di ritrovare la genesi dei mali invisibili del trentenne, bambino affettuosamente legato a un nonno che fin dal soprannome rappresentava un baluardo di salvezza dai lividi del mondo: Tempesta. Nelle mani callose di Tempesta il piccolo Loris si sentiva al sicuro: protetto, come dentro casa. Le pagine dell’infanzia sono vivissime, gonfie dell’emotività bambina di un Loris in balìa di un grumo di sensazioni da imparare a gestire, talvolta più grandi di lui, così esagerate da togliere il fiato e dare un giro di chiave a una scatola nascosta chissà dove.

Il tormento di non essere l’adulto sperato

È il percorso in salita verso la vita adulta. Ed è proprio in questa traiettoria che il trentenne ossessionato sente – sa – di aver fallito. Nel vacillare di tutto – affetto, lavoro, futuro – le fragilità del protagonista prendono un amaro sopravvento che annebbia tutto, sprofondano in un abisso fatto di inedia, apatia, di nulla. Addosso a Loris pesa la croce dell’incapacità, testimoniata dalla precarietà economica di un lavoro incerto, dalla salute apparentemente claudicante, morsa alle caviglie dall’ipocondria specchio dell’ansia. È una disfatta che fa cedere alla resa totale: il ciclo infinito dell’indolenza, una spirale che lo porta all’allontanamento progressivo dalla realtà, dalla vita, dalle relazioni. Solo il passato resta vivido, la scatola da ritrovare e aprire in cerca di una stella di luce.

“Esistono i mali evidenti, le ferite, ma esistono anche i mali oscuri” si dirà Loris stesso in attesa al pronto soccorso. Solo, sconfitto, tormentato e clamorosamente fragile a dispetto dell’irruenza che sulla carta promettono i trent’anni, agonizza abbandonato tra i flutti ingestibili di un mondo che lo soverchia, con un costante avviso, una spia che lo riporta al passato, a quella campagna dove Tempesta regnava operoso, tra luci di Natale da sistemare, colombi da addestrare, i misteri della vita da scoprire con la protezione avventurosa di un nonno e i riflessi opachi della paura. Di restare solo, di perdere i legami più solidi che lo facevano sentire al sicuro in un’infanzia-nido.

Nell’incapacità di guardare – di leggere per quello che è davvero – il passato, Loris precipita nella voragine di un futuro che non sa vedere. Sa di essere debole, ma la paura della sua stessa fragilità è più forte della voglia di provarci. E se è difficile entrare in sintonia con un personaggio angosciato da se stesso, è magistrale la capacità dell’autrice di animarlo nelle sue convulse ossessioni, restituendo con uno sguardo incredibilmente acuto il dolore di un bambino diventato ragazzo, il male di vivere di un trentenne che non trova pace nella realizzazione personale, quella sensazione innominabile di resa e insieme spavento, un tabù che sempre più si fa strada nel dibattito sociale, anche grazie a storie scritte come questa.

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