Besnik Mustafaj, l’amore impossibile e surreale dopo la guerra

“L’estate senza ritorno” di Besnik Mustafaj è un’opera sopravvissuta alla censura e al regime comunista in Albania. Un reduce di guerra, quarant’anni dopo la fine delle ostilità, torna a casa dalla fidanzata di un tempo che non l’ha mai dimenticato. Mai scontato, originale, coraggioso, il romanzo vive di immagini liriche e pensieri fluttuanti, di illusioni e fantasmi…

Un romanzo strano, una prosa ambigua, e – per questi giudizi che appartenevano ai volenterosi sostenitori di un’ideologia, piuttosto disinteressati alla letteratura – una scure capace di tagliare due terzi del testo originale. Stiamo parlando un’opera intensa e cruciale, che vide la luce inizialmente “mutilata” dalla censura dell’Albania comunista: a quei tempi e a quelle latitudini andavano avanti solo romanzi dediti alla causa del realismo socialista. Besnik Mustafaj non è una novità assoluta per l’editoria italiana (l’ha pubblicato anche Garzanti), è uno dei maggiori scrittori albanesi viventi (già politico, con incarichi diplomatici, e un’esperienza di ministro degli Esteri quasi vent’anni fa) e nella nota conclusiva di uno dei suoi più belli e importanti fra i suoi libri, spiega la suggestione all’origine della genesi de L’estate senza ritorno (204 pagine, 21 euro), che ritrovò la sua forma compiuta e venne nuovamente pubblicato, senza i tagli della censura, nel 1991, quando l’utopia dell’Urss e delle sue nazioni sorelle si sgretolò sotto i colpi della storia.

Forse non è come sembra…

L’estate senza ritorno, tradotto e curato da Julian Zhara, trova spazio nel bel catalogo delle edizioni Bibliotheka. È una felice scoperta leggere questo autore, la letteratura albanese non è solo il leggendario Ismail Kadare, morto qualche mese fa. Tra sogno, realtà e fiaba, Besnik Mustafaj racconta una storia d’amore e morte, condizionata dalla guerra, un amore, per molti versi, impossibile e surreale, un amour fou, quello tra l’impenetrabile e frettoloso Gori, reduce di guerra che torna, dopo l’esperienza del lager, a quarant’anni dalla fine delle ostilità, e Sana, la sua fidanzata di allora, una donna rimasta vergine, che non ha più voluto legarsi a nessun altro. Molto, però, non è come sembra. L’epilogo, con pagine del diario di Sana, allargherà qualsiasi nuvola d’incomprensione sull’andamento del romanzo. Si affastellano immagini liriche e pensieri fluttuanti e caotici, graficamente e ortograficamente l’autore si concede qualche libertà, per esempio usando, talvolta, arbitrariamente le lettere maiuscole (l’esempio più lampante alle pagine 108 e 109).

Forse l’Albania?

Gori – esausto e debilitato, volto pallido, spesso intento a leggere libri scritti da veterani di guerra – dice di aver mantenuto le promesse fatte a Sana decenni prima, e cerca di mettere in pratica quello che sognava, poco più che ragazzo, per il loro futuro in comune. Chi arriverà fino in fondo, alla fine di questo romanzo che tanto pretende dal lettore e tanto dà, scoprirà l’esistenza di uno scarto temporale di due settimane che fa la differenza in uno dei passaggi più significativi della vicenda. Sana, sopravvissuta in virtù di un’illusione, è un personaggio potentissimo e, chissà potrebbe, in qualche modo rappresentare l’Albania, alle prese con l’inganno e l’abbaglio del comunismo, con ombre e fantasmi. Besnik Mustafaj, ormai quasi quarant’anni fa, ha scritto un volume che ha nel suo dna il coraggio, l’originalità, la sfida alla letteratura che va per la maggiore e che forse letteratura non è.

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