Interviste concesse in oltre tre decenni, dai tempi della fallimentare esperienza politica agli ultimi anni, sono raccolte in “Davanti allo specchio. Conversazioni con Juan Cruz Ruiz” di Mario Vargas Llosa. Dichiarazioni schiette, complementari all’autobiografia finita fuori catalogo, in cui il Premio Nobel sfata qualche mito che gli è stato cucito addosso e si racconta come lettore ancor prima che come scrittore…
Il mito dello scrittore schivo e che non si concede non è ascrivibile al maestro peruviano Mario Vargas Llosa. Basti pensare che una ventina di conversazioni, nell’arco di più di trent’anni, con un solo giornalista, infine amico, lo spagnolo Juan Cruz Ruis, costituiscono un libro che si candida a essere un breviario per chi ama l’autore di, fra gli altri, Conversazione nella “Catedral”, Avventure della ragazza cattiva, La città e i cani, La zia Julia e lo scribacchino. Scrittore di veneranda età, ma di immutata prolificità e qualità. Mario Vargas Llosa viaggia per gli 89 anni ma a breve tornerà nelle librerie italiane, come sempre per Einaudi, con Le dedico il mio silenzio, pubblicato nei paesi di lingua spagnola l’anno scorso. Niente male per lui che, settantunenne, sosteneva di non avere «molta curiosità per il futuro» e di sapere «di avere più progetti che tempo per realizzarli». Introduzione e chiosa del suo impegno letterario è Davanti allo specchio. Conversazioni con Juan Cruz Ruiz (256 pagine, 20 euro), edito da Mimesis grazie alla traduzione di Anna Falivene. Uno spassionato e sincero raccontare la propria vocazione, mostrarsi, spiegarsi, ragionando di letteratura e politica, sfatando qualche mito. Come la sua fama da reazionario totale, partito da posizioni marxiste. Lui, già candidato alla presidenza del Perù, prova invece a sbandierare ai quattro venti altro: è un liberale, un riformista, che crede nel cambiamento, che guarda all’aspetto etico del socialismo, che ritiene fondamentale combattere «la mentalità statalista» e considera il marxismo «una grandissima zavorra per l’umanità, fonte di sofferenza e povertà».
La felicità è per gli sciocchi (sembra Sciascia)
All’interlocutore privilegiato che lo ha intervistato più e più volte (così amico da non chiedergli mai davvero della rottura con Garcia Marquez, diventata un romanzo grazie a Jaime Bayly, qui l’articolo) risponde un vecchio gentiluomo latinoamericano, svezzato in un’accademia militare e in vari bordelli. Insomma non stiamo parlando delle esilaranti interviste di Truman Capote (ne abbiamo scritto qui), ma comunque di incontri schietti e sincere confessioni che meritano attenzione, una sorta di volume complementare a quella sua autobiografia parziale che è Il pesce nell’acqua del 1993, ora difficilmente reperibile, dopo essere uscita dai cataloghi Rizzoli e Scheiwiller. «Scrivere è la mia maniera di lottare contro l’infelicità», garantisce. Ed è esemplare il punto di vista sulla felicità, che riecheggia concetti espressi da Leonardo Sciascia in alcune lettere all’amico Stefano Vilardo, riunite nel volume Nessuno è felice: tranne i prosperosi imbecilli (ne abbiamo scritto qui), pubblicato dall’editore De Piante. Per Mario Vargas Llosa «l’idea della felicità permanente la associamo a ragion veduta agli sciocchi, ai conformisti. Se dici di essere felice, stai già cominciando a morire». Su tutto, però, sembra troneggiare una sostanziale impotenza, un’atavica insoddisfazione: «Qualsiasi opera, anche un capolavoro, è sempre una sconfitta nell’intimo di uno scrittore, un prodotto molto al di sotto del culmine che si era proposto di toccare»
Le giravolte e le passioni imperiture
C’è qualche giravolta nei punti di riferimento del giovane e dell’anziano Mario Vargas Llosa. Camus, con la sua generosità e la sua contraddizione umana, più che Sartre, di «accecante intelligenza» ma «datato». E ancora più di loro Popper e Berlin. In ambito letterario le infatuazioni per Dumas e Hugo, la riscoperta di Onetti (qui l’articolo sul suo libro Gli addii) come vero numero uno del Boom, e poi Proust e Borges, Faulkner e Flaubert. La parabola di lettore e scrittore – con la spinta decisiva della mitica agente Carmen Balcells, con cui ingaggiò varie «scazzottate verbali» – raccontata dalla sua voce è la confessione all’orecchio di un fedele servitore della letteratura, come antidoto al potere, alla «trasformazione della cultura in un intrattenimento passeggero», alla civiltà dell’immagine che tende «a creare un pubblico sempre più conformista e passivo» e alla tecnologia come panacea di tutti i mali.
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