Ne “Il crepuscolo dei pensieri” di Emil Cioran, a differenza di più pessimiste opere della maturità, si ritrovano riflessioni che respirano già l’ossigeno nichilista, ma sono ancora annodate a una possibilità di vita. Pagine in cui l’ironia e il paradosso sono compagni di vita più che scelte stilistiche…
Tentare di collocare Emil Cioran all’interno di una qualunque etichetta concettuale, tentare di stiparlo come uno scomodo tomo su una precisa mensola recante l’indicazione di un genere letterario prossimo, o provare a delinearne i contorni letterari a partire da schemi precostituiti di individuazione filosofica, tutto ciò somiglia al folle, seppur romanticamente tenero, tentativo di nullificare un principio di indeterminazione di Heisenberg che si impone ben oltre l’ episteme del suo dominio scientifico proprio.
Cioran è inosservabile se, per osservazione, si intende l’alibi dell’inventario bibliografico. Cioran, mentre lo osservi cercando di capire chi sia, o cosa sia, muta la propria natura facendoti precipitare nella sua stessa entropia. Se lo guardi di sfuggita, senza la pretesa di osservarlo, puoi coglierlo. Se lo osservi, se ardisci la ybris dell’esplorazione, ti sfugge. Nell’onda indistinta del suo pessimismo ossessivo, se ti sforzi di non lasciartene ossessionare, ti potrà capitare di individuarlo come un’inusitata particella di vita.
Vie di fuga al non senso di esistere
E neanche puoi fare dell’aforistica un microcosmo adatto a contenerlo; primo perché Cioran non scrive solo aforismi, ma riesce persino a periodare. Secondo, perché non tutti gli aforismi si somigliano: alcuni sono autosussistenti, autoreferenziali, chiusi, dicono non una sillaba in più di ciò che intendono affermare, come improvvise eruzioni di sintesi; altri, come semi, sono destinati al germoglio, all’altrui speculazione: sono aforismi per convenzione, senza intenzionalità di assoluto, specie quando l’assoluto è qualcosa o qualcuno da cui – con una sentenza o con una polemica di pensiero – si intende evadere. E l’evasione, per sua stessa natura, promette uno spazio libero attraverso il quale fuggire. Gli scritti di Cioran non sono prigioni, e le parole di cui sono fatti non sono sbarre; si tratta di vie di fuga, corsie preferenziali di salvezza dall’insolubile dramma del non senso di esistere. Le lenzuola annodate, che gli permettono di scappare, sono quelle dell’ironia e del paradosso, compagni di vita più che scelte stilistiche; appigli irretorici. È attraverso il paradosso – così scrive – che la ragione salva il proprio onore di fronte all’irrazionale.
Il crepuscolo dei pensieri (Adelphi, 238 pagine, 20 euro) è un fitto avvinghiarsi di queste lenzuola, talvolta brevi come una sentenza, altre volte più complesse come un soliloquio. Ma si tratta sempre di una versificazione solenne, come in certe confessiones. Un testo che è un inno alla fuga, un sospiro di sopravvivenza. La mirabile traduzione di una Cristina Fantechi già consacrata alla paradosi cioraniana, ci restituisce, in un italiano tanto chiaro quanto elegante, la stessa precisione di un autore che – ad un certo punto – elegge il francese come lingua adatta alla pacatezza del proprio grido interiore. Ma questo solo dal Breviario dei vinti in poi. Prima, e il Crepuscolo dei pensieri appartiene a questo prima, Cioran scrive nell’idioma natio, quel rumeno che, quasi per una sorta di autoprocurata asfissia nazionalistica, ma non solo per questo, egli scelse di abbandonare. Forse, chissà, magari per una disperata ricerca di estetica come di vita.
Il nostro libro, dunque, è la traduzione di una traduzione: un passaggio tutto neolatino dal rumeno al francese, dal selvatico al cortigiano, per poi darsi anche in italiano che fortunatamente, essendo lingua di santi e poeti, si presta al mistico vaticinio di questo profeta in cenere. Per altri autori, tutta queste serie di traduzioni, avrebbe significato dispersione, una troppo complessa prolunga di risemantizzazioni, con perdita di elettroni e di suggestive sfumature. Ma Cioran sfrutta un’energia dialettica talmente elementare (un atomo opaco anche lui?) da permettere questi passaggi linguistici nel modo più semplice; scrive come l’evangelista Giovanni: periodi immediati, poche sovrastrutture di subordinazione sintattica, lemmi popolari e nessun solecismo. Scrive come l’evangelista Giovanni ma… In principio era il nulla, e il nulla si è fatto carne.
Così egli vede la propria entrata in scena nella storia: un evento messianico ma a polarità invertita; qualcosa di talmente grave (come tutte le nascite) da sentirsi colpevole per il solo fatto d’esistere ma, allo stesso tempo, talmente bello che, se egli non fosse esistito, o avesse scelto di non essere, non se lo sarebbe mai perdonato.
Ultimo canto del cigno
La sua opera, dunque, che in questo testo si fa anticipo di molte produzioni future (come La tentazione di esistere, o L’inconveniente di essere nati) è qui quanto mai germinale. Forse, considerando l’immediatamente successivo Breviario come un necessario spartiacque, come il suo pieno e consapevole auto-deconcepimento, la sua auto-decomposizione, questo testo costituisce una sorta di ultimo canto del cigno: vi si ritrovano riflessioni che respirano già l’ossigeno nichilista, ma ancora in qualche modo annodate ad una possibilità di vita; vi si incontrano annuvolamenti di percezioni sensibili che, lungi ancora dall’essere votati alla sconfitta del reale, non partecipano pienamente di quel pessimismo cosmico così chiaramente visibile quando si parla di un Cioran più maturo. Non sarà mai una ginestra, questo occorre dirlo, ma è pur sempre un crepuscolo, e non ancora la notte. L’esaurirsi del fenomeno umano, come lo chiama lui, non è qui ancora interamente celebrato e compiuto.
Non so quanto convenga essere teneri con un autore per cui l’intenerimento è un delicato crepuscolo della lucidità; peraltro è lucidamente che non si può esser altro che teneri quando ci si incontra con certe sue deduzioni, che mostrano in lui occhi da bambino disincantato ma, allo stesso tempo, appassionato. Sono i momenti in cui scopriamo, per esempio, che timidezza e cinismo sono la stessa cosa, vista solo dalla prospettiva dell’istinto o della ragione. Cioran sembra scoprirlo come un bimbo scopre il funzionamento di un binocolo usato al contrario. Si arriva persino a sorridere quando, in quella lucidissima e attuale diagnosi che ci fa ritrovare in Cioran un po’ del nostro migliore Petrolini, leggiamo che l’idiota altro non è se non un intellettuale che si è pericolosamente allontanato dall’orrore di sé stesso, da quell’horror vacui mei di cui solo un’anima religiosa è capace.
Vi è poi un modo d’essere religiosi che non contempla la dimensione dell’adesione istituzionalmente formalizzata, e che procede per una metafisica relativa, tutta sotto lo zero del credere. Il nulla come assoluto, un infinito preterintenzionale. Se per Cioran, rispetto al fallimento umano, il non-uomo è di più: una possibilità, è ragionevole pensare che il suo senso religioso cerchi il divino più autentico nella possibilità di un non-Dio, un Nulla tutt’altro che impersonale e, nella più bonaria delle sue interpretazioni, solo un infinito desiderio di musica.
La solitudine è il motore
Questa dimensione, questa pietas sub contraria specie si coglie pienamente all’interno di questo testo, forte di una tensione religiosa che lega il suo autore al senso del sé, e lo libera da quello dell’io dove la solitudine è un’opera di conversione a sé stessi, un satori in cui – provvidenzialmente – ti puoi incontrare solo svuotandoti totalmente della coscienza. È a quel punto che tutto ciò che si ha di meglio diventa indipendente dalla propria identità naturale. E così ci si rivolge a qualcuno. Lui lo dice da nichilista, da pessimista, da elegante misantropo per cui gli individui sono organi del dolore. Ma sta annunciando qualcosa di incredibilmente religioso, e non solo in termini di etimologia: la solitudine è il motore che ti mette alla ricerca dell’altro, e dell’Altro. Un dinamismo ineludibile che ti invita a pensare il momento della morte, e cioè della solitudine estrema, come l’indeterminazione infinita: l’ultima espiazione possibile è il non sapere nulla, il non esserci neanche accanto al sé stesso che se ne va. Anche se – e qui si coglie l’assoluto di un uomo sciolto dalle necessità della sua poetica – a proposito del momento fatale egli scrive: Se si potesse morire al mondo all’ombra della donna, se il suo profumo fosse un’emanazione di melanconia per l’assopimento di un cuore strappato alla terra!
Qui sembra di trovarsi addirittura ad un passo dal crepuscolo, dove sopravvive uno stigma di luce. Tutto oscilla in quell’attimo subito precedente al chiudersi delle palpebre, quando ancora è possibile il miracolo di una contemplazione: una specie di calcolo infinitesimale in cui tagli l’istante come un atomo, risalendo alle sue particelle, i bosoni dell’esistenza, prima che esistenza non sia più. E in questo scorrere di tempo senza tempo, il quale sembra allungarsi all’infinito gioco di un paradosso di Zenone, Cioran coglie il dolore come l’essenza stessa del tempo. Altezza, lunghezza, profondità e patimento sono per lui le dimensioni dell’essere. Come un controcanto ad Agostino, Cioran vede non tanto il tempo come la misurazione degli oggetti che si muovono nello spazio, ma lo spazio come occasione in cui il tempo può determinarsi nel dolore dell’esistenza, l’unico assurdo intermezzo alle due forme di suicidio perenne che sono il paradiso e l’inferno. E tuttavia, confessa il nostro autore quasi a volersi affrancare dalla sua ossessione, non è egli che pensa alla morte: è questa ad essere capace di un pensiero autocosciente; solo che – e qui è il dramma – per potersi determinare, per poter vivere, la morte ha bisogno di lui, di Cioran. E di ciascuno di noi. Una slatentizzazione che ci ricorda la teoria del male in Pareyson, ma che qui ha come oggetto la vita.
Dove luce e buio si confondono
Morte, giudizio, inferno e paradiso… Cioran estremizza e riattualizza i Novissimi secondo l’imbrunire del suo personale crepuscolo, l’indaco indefinito delle sue tensioni interiori che lo costringono ad un movimento verso le tenebre, ancorché luminoso. Fino ad un intenso viola, che egli definisce come il colore del rimorso, il sentimento ambiguo per eccellenza, un misto di teologia e volgarità. E qui, ancora, una visione frutto del suo intuito da moribondo di lungo corso: peccato e rimpianto altro non sono che le controfigure del rimorso; il primo nell’anima religiosa e il secondo in quella poetica.
A Cioran piacciono questi estremi, entro i quali collocare la sfumata concettualità del suo delirio; gli piace riandare le parole di questo segmento che è la sua vita, come sentieri mille volte ripercorribili, e trovarvi nuovi significati, ammesso che un significato possa ancora avere un senso.
Cioran, nella sua strutturale inosservabilità, nella sua indeterminatezza, si colloca forse qui, precisamente: tra la pietà e la poesia; nulla di strano che egli si riveda in Dostoevskij, in Pascal, in Leopardi. Anime affini per quanto, per molti altri versi, diametralmente opposte. Tutti alla ricerca di un rimorso che incuta tenerezza come una forma di terrore, l’unico possibile a tracciare un punto di equilibrio tra l’essere e il non-essere del suo Heidegger, amor giovanile poi rinnegato, ma sempre rincorso tra i suoi logoi, come una perenne speranza di esistenza.
È un libro complesso Il crepuscolo dei pensieri, ma di una complessità diversa dal difficile. La vita è difficile, il suo perché, il suo significato; capire come mai, invece, può essere stranamente semplice, proprio come leggere una riflessione del nostro autore, ma altrettanto complesso sarà entrare in quello stato d’animo che ha potuto partorire certi pensieri, senza che si possa dire che essi siano venuti alla luce; è la stessa complessità di una ricerca, dove – per trovare una direzione d’indagine – devi prestar fede ad un modo di parlare, che è il suo. Ad un modo di vedere le cose, e di percepirle, che è il suo. Dove luce e buio si confondono, si fondono insieme cioè, in quella realtà che dura solo pochi istanti, che non è luce ma ti acceca: il crepuscolo. Degli dei, della lucidità, delle illusioni e degli idoli. Dei pensieri.
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Gentile dott. Puglisi,
Sono Cristina Fantechi; la ringrazio per i complimenti che ha voluto riservare alla mia traduzione. Mi permetto di aggiungere una piccola precisazione su una circostanza di cui lei, ovviamente, non poteva essere al corrente. Io la traduzione l’ho condotta sul testo romeno avvalendomi, all’occasione del francese. In un altro caso (“La finestra sul nulla”, ed. Adelphi) ho lavorato direttamente sul manoscritto cioraniano, conservato presso la biblioteca Jacques Doucet di Parigi, con tutte le difficoltà della non facile grafia dell’Autore complicata dall’interpretazione dei segni diacritici. Grazie ancora
Carissima, sì certo, non avrei potuto sapere, e la ringrazio per avermi messo a parte di questo. Tutto ciò, ovviamente, non fa che aumentare la mia personale stima per Lei, poiché ho sempre immaginato, insieme alla bellezza, anche la difficoltà di questa sua professione, che non esiterei a chiamare un vero e proprio “ministero”. Mi auguro con tutto il cuore di poterla conoscere! Sempre a disposizione. Un caro abbraccio, don Nuccio.