Col suo italiano preciso e levigato, con stile, Helena Janeczek disegna quattro traiettorie imprevedibili, singoli che provano a indirizzare il proprio destino, pezzi di esistenze individuali – colte in spaccati quotidiani e ordinari – che si reggono su vicende collettive, e sono costruite in un contesto narrativo corale. Il racconto che apre Il tempo degli imprevisti (240 pagine, 19 euro), edito da Guanda, è Le sorelle Zanetta, ovvero Abigaille, detta Ille, ed Erminia, detta Ermis, provinciali che insegnano a Milano (città decisamente meno cool di quella odierna), in centro; tra pettegolezzi di paese, lettere, diari, articoli di giornali e documenti si dipana la loro storia, in particolare di Abigaille, donna di grande coerenza, piena di impeti, di rivendicazioni di giustizia sociale, protagonista del movimento socialista, femminista della prima ora, poi antifascista e pacifista. Il protagonista del racconto successivo, Una stagione di cura, il dottor K., è uno dei maggiori scrittori di sempre, Franz Kafka, a Merano nel 1920, dove si trova per provare a curare i malanni della tubercolosi, alimenta una corrispondenza con Milena, sua traduttrice in ceco, convinto che qualcuno, in chiave antisemita, lo stia spiando, magari provando a leggere le sue lettere: un’abile costruzione, tra ironia e paranoia, in cui Kafka fa i conti con l’ignoto e il sospetto, in una ragnatela che somiglia, e s’ispira, ai suoi libri. Con il terzo testo, L’ultimo autunno, finiamo tra calli e canali di Venezia, il narratore si svela alla fine, ma in seconda persona racconta della dolce Mary de Rachewiltz, figlia di Ezra Pound e della violinista Olga Rudge, tardivamente riconosciuta dal padre: la nota e la segue, raccontandone, con un pizzico d’invidia, il presente e l’infanzia, un suo antico fratello di latte, ora malmesso mendicante. L’ultimo episodio, Il tempo degli imprevisti, poi titolo dell’intero volume, conduce il lettore in uno dei cuori della Mitteleuropa, nella Trieste degli anni Trenta, che di lì a poco sarebbe stata scelta da Mussolini per proclamare pubblicamente le leggi razziali; lì lo studente Albert O. Hirschman, futuro economista affermatosi negli Usa, discute la tesi di laurea, lì si è trasferito al fianco dell’affascinante sorella Ursula, antifascista e femminista, compagna di vita dell’eroe antifascista, insegnante e filosofo Eugenio Colorni: le loro vite sono raccontate con lo sguardo e i malevoli pensieri degli avventori dei caffè della città giuliana. Borghesi e intellettuali, fra cui molti componenti di famiglie ebraiche triestine molto ben integrate, sono troppo intenti a ciarlare e a ignorare ciò che monta attorno a loro, e poco inclini a credere in un futuro di sofferenze e deportazioni.

Fiducia nella letteratura

Piccoli dettagli e grandi orizzonti del Novecento rimpallano in tutti e quattro i racconti, dall’anima univoca – non solo la tragedia e la distruzione e l’orrore, ma anche la speranza emanata dalle figure raccontate – ma estrosamente declinati con stili e registri eterogenei. Sono libri come questi che ci danno fiducia, che ci fanno credere che la letteratura non sia fast food. Le parole, le frasi e le storie di Helena Janeczek restano dentro, sedimentano, lasciano interrogativi e riflessioni, accendono sorprese e dolori, fanno venir voglia di saperne di più. Il tempo degli imprevisti prolunga i battiti della conoscenza, della resistenza, ci aiuta a incoraggiarci e comprenderci, a sapere da dove veniamo, a combattere i veri spauracchi della vita, ignoranza, ottusità e oscurantismo.

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