Nel primo romanzo di Sándor Márai, “Bébi, il primo amore”, le certezze e le abitudini di un maturo e anonimo insegnante vanno a picco quando questi si innamora di una sua studentessa. I piccoli impercettibili cambiamenti sono descritti con grazia. Un primo lavoro in cui si intravedono le suggestioni delle opere maggiori, tra ombre dell’anima e vivisezione dei sentimenti
Quand’è che ci siamo innamorati della malinconia e del talento di Sándor Márai? Sarà stato alla fine del secolo scorso, alcuni anni dopo la sua morte, quando eravamo davvero, anagraficamente e intimamente, giovani. Da allora il realismo borghese dell’ungherese Márai, dopo la pubblicazione de Le braci da parte di Adelphi – nessuna sfrontatezza, arroganza o paura nel definirlo un capolavoro – ha fatto vari miracoli, è nato editorialmente in Italia, conquistando la ribalta, e ha perfino “aiutato” altri suoi dotatissimi connazionali, scoperti o riscoperti dalle nostre case editrici, da Kostolanyi a Kertész, premio Nobel, da Magda Szabó a Péter Esterházy, da Péter Nádas a Imre Oravecz, fino agli “oriundi” Giorgio e Nicola Pressburger, o Edith Bruck. Dopo tanti romanzi celeberrimi, diari e libri autobiografici di Sándor Márai, ritrovare ancora la sua voce è come affidarsi alla macchina del tempo, farsi trascinare indietro, a oltre un quarto di secolo fa. Intatti lo stupore della scoperta, il candore crudele della sua scrittura, la sensazione di dover divorare pagine per continuare a respirare, a vivere.
I am the walrus
Se il suo debutto era datato 1924, con il racconto lungo Il macellaio, l’esordio senza paura di Sándor Márai nell’arena dei romanzieri arrivò qualche anno dopo, e si è materializzato solo adesso in un irresistibile volume Adelphi di un riconoscibile color pastello, verde acqua, Bébi, il primo amore (260 pagine, 19 euro), tradotto da Laura Sgarioto. Un romanzo, ambientato negli anni Dieci del Novecento, che in nuce lascia già intravedere suggestioni e temi delle opere della maturità, il crudo scavo psicologico, il disagio interiore dei protagonisti, le ombre dell’anima e la vivisezione dei sentimenti, tutto elementi dell’universo poetico e umano dell’autore magiaro. Bébi, il primo amore è il diario lungo undici mesi di un anonimo («per le mie memorie non ci sarebbe bisogno di molte pagine») insegnante di latino, Gáspár, ultracinquantenne dai baffi spioventi, che gli studenti chiamano il Tricheco, dalla vita squallida e poco meno che ordinaria. Inetto, sgraziato, abitudinario, anche nella frequentazione di una casa di tolleranza. Il diario («Il motivo per il quale non lo butto via subito è che, un giorno, lo farò vedere a un medico») si apre con il suo arrivo Virágfüred, località turistica e termale in cui ha soggiornato ventotto anni prima, nella sua precedente e unica vacanza. Non è sposato, non ha amici ed è nell’hotel in cui alloggia che, dopo tanti anni, prende coscienza dell’estrema solitudine, una malattia quasi incurabile, in cui si è cristallizzata la sua vita miserabile. Incontra un altro ospite dell’albergo, nelle sue medesime condizioni, un altro povero diavolo come lui, Agoston Timár, interlocutore affine, che gli indica «due rimedi. Due vie d’uscita. Due medicine. […] Una è l’amore, l’altra è Dio. E io, mi creda, non le conosco. Nessuna delle due».
Una spiazzante novità
Con mano solida e sciolta Sándor Márai cuce, con l’espediente del diario, quello che finisce per essere uno dei suoi lunghi e magistrali monologhi, e prova a raccontare una metamorfosi «da bruco a farfalla» che il professore, quasi inconsapevolmente, porta avanti, dopo aver ripreso a insegnare in un’ottava classe (cioè l’ultimo anno di liceo) mista, spiazzante novità, con sei ragazze fra gli allievi. Nel vuoto delle sue giornate accade qualcosa, turbato com’è dalla relazione di due suoi studenti, Madàr, bravo e di povere origini, a cui l’insegnante regalerà anche un cappotto, e l’appena graziosa Margit (chiamata Bebi dal ragazzo, in un biglietto sequestrato dall’insegnante) che, lentamente e implacabilmente, diventerà tardivo amore platonico e ossessione morbosa per Gáspár, tra disagi intimi e un crescendo di sbagli, o solo di scelte che in passato avrebbe ritenuto azzardate, anche solo piccoli cambiamenti: dal taglio della barba alla decisione («una cosa inutile e dissennata») di farsi confezionare un abito nuovo, pagato a caro prezzo e non nero, ma addirittura grigio chiaro. Le abitudini e le regole che scandiscono i suoi giorni finiscono a pezzi, Sándor Márai descrive con grazia, e in modo magistrale, ogni pericolosa sfumatura e dinamica, questi piccoli gorghi che finiscono per costituire un grande abisso. Un canovaccio che tornerà a ripetere, con maggiore fragore e con esiti ancora più alti.
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