Disruption, la terza via dei cambiamenti. Anche per i leader

Le tecnologie più rilevanti per un’azienda sono sempre state quelle sviluppate internamente o sviluppate da partner industriali. La creatività è un segno distintivo delle capacità relazionali e dovrebbe ispirare i leader del futuro. Sono solo alcuni degli spunti di riflessione di “Disruption. Guida per navigare i cambiamenti estremi”, a cura di Alberto Mattiello e Paolo Taticchi

Ci sono momenti storici in cui i cambiamenti accelerano e convergono, portando a quello che gli autori definiscono situazioni di disruption.

Sin da Joseph Schumpeter, economista austriaco eterodosso che con le sue pubblicazioni focalizzò sull’importanza della crescita e dei cicli economici, la letteratura conosceva solo due tipi di innovazioni: quella radicale e quella incrementale. Le “radicali” proponevano una nuova idea di prodotto attraverso una nuova tecnologia. Le “incrementali” invece riguardano l’innovazione in misura evolutiva, ovvero la capacità di imitare, di differenziarsi dai concorrenti, dal sapere servire meglio il mercato senza mutare il concept di prodotto e la tecnologia per ottenere successo. Ma poi, nel 1997, Christensen con il termine disruption introdusse una terza categoria di innovazione.

Nella teorizzazione di Christensen, la disruption è un processo mediante il quale un prodotto o un servizio vengono trasformati dall’innovazione tecnologica. Le innovazioni disruptive non sono il frutto di scoperte rivoluzionarie o dell’arrivo di nuovi protagonisti che ripensano radicalmente i modelli di business. Consistono invece spesso in prodotti e servizi semplici, facilmente accessibili e a basso costo. Soluzioni che all’inizio sono di qualità modesta ma che, nel tempo, hanno la capacità di trasformare un intero settore.

Un fenomeno diffuso…

Molte grandi aziende hanno spesso in pancia le innovazioni disruptive ma, quando le brevettano, non hanno la forza di lanciarle sul mercato perché ascoltano troppo i loro clienti serviti e non hanno il coraggio di cannibalizzare la quota di mercato dei loro stessi prodotti. Ecco quindi che qualche concorrente proveniente da altri settori o in forma di start up, in assenza di queste inerzie cognitive ed economiche, le lancia e nel tempo diventano un vero e proprio disruptor, costringendo l’azienda leader improvvisamente a seguire anziché a guidare il mercato.

Secondo i dati di una ricerca Accenture, il 63% delle aziende sono attualmente alle prese con processi di disruption, e il 44% ne sono fortemente influenzate. Gli autori si chiedono quali siano le cause che rendono ancora così vulnerabili le aziende alle minacce dei processi di disruption. Il problema è che anche i leader ben intenzionati spesso si illudono e minimizzano le reali minacce della disruption. Oppure sopravvalutano la difficoltà delle contromisure da adottare. I leader aziendali devono imparare meglio a sviluppare le capacità di un’organizzazione e degli individui che ne fanno parte a superare le resistenze che si manifestano di fronte a processi di  disruption. È facile trovarsi nel mezzo di un vorticoso processo di disruption e cercare conforto in dati che continuano a suggerire che tutto stia andando per il meglio. Ma questo accade solo perché i dati sono sempre in ritardo rispetto alla rapidità delle trasformazioni.

L’esempio che riportano gli autori di un volume edito da Guerini Next, Disruption. Guida per navigare i cambiamenti estremi (288 pagine, 29 euro) – Alberto Mattiello e Paolo Taticchi, con traduzioni di Mauro Del Corno dalla rivista MIT Sloan Management Review – è quanto accaduto alla Nokia la quale è caduta nonostante avesse ormai una posizione di mercato dominante, oltre alle risorse e le capacità per gestire la transizione verso gli smartphone, e sebbene avesse manager che avevano compreso e condividevano la teoria di Christensen sulla disruption.

Le difficoltà della sfida

Una reazione efficace ai processi di disruption richiede che i leader aziendali siano in grado di reinventare il business di oggi avendo già in mente come costruire quello di domani. Più nello specifico, devono essere adottati sistemi per risolvere i problemi dei clienti e al contempo individuare nuove opportunità di crescita. La difficoltà della sfida non sta solo nel fatto che spesso queste due missioni sono in contrapposizione e la loro attivazione produce fasi di confusione e incertezza, ma anche nel fatto che vengono richiesti una mentalità e un tipo di approccio nuovi. Da uno studio realizzato dal docente di Harvard Robert Kegan, emerge tuttavia come alla maggior parte dei leader manchi la flessibilità intellettuale necessaria per passare da un atteggiamento di disciplinata gestione dell’ordinario a una fase di maggiore intraprendenza.

La leadership trasformazionale e la trasformazione digitale sono due concetti significativi che hanno acquisito importanza negli ultimi anni. La combinazione di questi due domini è diventata sempre più rilevante poiché le organizzazioni cercano di adattarsi ai rapidi progressi della tecnologia e al panorama aziendale in evoluzione. La leadership trasformazionale è particolarmente utile per migliorare le capacità intrinseche nel motivare i dipendenti e aumentare l’empowerment psicologico. Comprende quattro componenti distinte: influenza idealizzata, motivazione ispiratrice, stimolazione intellettuale, attenzione individualizzata. Nel panorama digitale in rapida evoluzione, i dipendenti devono essere motivati e coinvolti per abbracciare nuove tecnologie e processi. I leader trasformazionali eccellono nel comunicare una visione avvincente del futuro digitale dell’organizzazione, instillando un senso di scopo e direzione tra i loro team. Questa visione condivisa crea un senso di scopo unificato, che spinge i dipendenti a lavorare verso obiettivi comuni. I dipendenti diventano più ricettivi al cambiamento, si adattano volentieri al panorama digitale in evoluzione e partecipano attivamente al percorso di trasformazione. Con il panorama digitale in rapida evoluzione, la leadership trasformazionale è diventata un’idea cruciale che può avere un impatto significativo sul successo organizzativo con risultati chiave quali: motivazione e performance dei dipendenti, soddisfazione lavorativa, impegno organizzativo che promuove innovazione, adattabilità, resilienza, crescita e performance organizzativa. In virtù della sua capacità di ispirare e motivare i dipendenti, la leadership trasformazionale svolge un ruolo cruciale nel promuovere l’adozione di progressi tecnologici e metodi di lavoro innovativi. In realtà, diversi stili di leadership, come quella transazionale o di servizio, potrebbero svolgere ruoli cruciali nella promozione di iniziative di trasformazione digitale.

Umanocrazia

L’attuale contesto mondiale è responsabile del lato oscuro dello scenario globale: crescente disuguaglianza, disoccupazione, sottoccupazione, maggiore mobilità globale dovuta alla migrazione forzata. In quest’epoca di sconvolgimenti, le strutture di potere dall’alto verso il basso e i sistemi soffocati dalle regole sono passività. Schiacciano la creatività e soffocano l’iniziativa. La creatività è un segno distintivo delle capacità relazionali. I leader dovrebbero ispirare la creatività in tutta l’organizzazione. È necessario passare dalla mente individuale all’idea più ampia di basi socioculturali distribuite dell’intelligenza che poi estendono la natura della creatività in aree funzionali alla risoluzione dei problemi. Hamel e Zanini definiscono questo processo umanocrazia. Si potrebbe esplorare la ricerca futura che potrebbe essere in grado di sviluppare una teoria e quindi identificare le competenze di leadership di un leader umanocratico. I leader del futuro devono abbracciare l’immaginazione e il pensiero innovativo come essenziali sia per l’identificazione dei problemi emergenti che per la creazione di soluzioni praticabili. Devono cogliere la realtà sapendo che c’è una rimodellazione della natura umana in una cittadinanza globale, così come la ri-genesi della società attraverso cambiamenti nella struttura sociale, nelle istituzioni e nei governi esistenti.

La disruption presenta una serie unica di opportunità e sfide per i leader non solo per reinventarsi, ma anche per reimmaginare le proprie organizzazioni.

La maggior parte dei manager è cresciuta professionalmente in un contesto di una gestione disciplinata oppure in uno imprenditoriale, ma raramente in entrambi e quasi mai in entrambi contemporaneamente. Per riuscire a trasformare se stessi i leader devono concentrarsi di più sulla propria mentalità, ed essere abbastanza introspettivi e riflessivi da riuscire a identificare i pregiudizi di fondo che compromettono un corretto processo decisionale. Non ci sono soluzioni immediate, ma le ricerche in questo campo suggeriscono sempre di più che il miglior punto di partenza sia quello di adottare pratiche note con il termine di mindfulness. Queste pratiche accrescono la consapevolezza e la capacità per chi le utilizza di capire e gestire meglio le proprie emozioni e i propri processi decisionali.

L’impiego della mindfulness

La mindfulness è uno stato di coscienza in cui siamo testimoni vigili e presenti dei nostri pensieri, delle nostre emozioni e percezioni, momento per momento. È uno stato mentale. Una modalità dell’essere, non orientata a uno scopo. Focalizzata al permettere di stare nel presente così com’è, di essere semplicemente in questo presente. Ma la pienezza dell’esperienza comprende necessariamente anche un lato negativo, il risvolto del benessere, ovvero il disagio, la sofferenza e il dolore. Accettare il lato negativo viene considerato motivo di crescita e di creatività. Fare spazio al disagio paradossalmente sembra essere un ottimo modo per porsi nelle condizioni migliori per trovare, ove ci siano, soluzioni efficaci per gestire o risolvere problemi e sofferenza.

L’impiego della mindfulness nella nostra vita quotidiana porta alla consapevolezza di non essere individui che agiscono in un sistema isolato agli altri individui ma di appartenere a un contesto sociale, in cui le nostre scelte possono avere delle ripercussioni sulle altre persone. Dalla consapevolezza del sé si passa quindi alla consapevolezza dell’Altro, ovvero alla social  mindfulness. Nello specifico, le scelte che facciamo e che tengono in considerazione la presenza delle altre persone, ossia che non limitano le loro possibilità di scelta, racchiudono in sé il concetto di consapevolezza proprio della mindfulness. Associare la mindfulness alle situazioni di interdipendenza potrebbe apparire una parziale forzatura poiché essa è solitamente considerata in relazione al benessere individuale. Tuttavia, è importante integrare l’attività individuale della mindfulness con l’esperienza della social mindfulness in quanto siamo costantemente portati a interagire in un contesto sociale popolato da altre persone.

La mindfulness si colloca all’avanguardia della “micro” politica, o della politica “fai da te” o “del quotidiano”, poiché conferisce una dimensione politica alla presenza a sé stessi sul piano individuale: in questo senso si può forse considerare l’ultima frontiera della politica della soggettività umana. Nella fattispecie, il dilemma se leggere le pratiche individuali come parte integrante di un’azione sociale e politica trasformativa o piuttosto come modello di autogoverno neoliberista trova nella mindfulness un perfetto esempio. Alcune voci critiche indicano nella mindfulness l’esempio di una forma produttiva di potere, che costruisce e disciplina soggetti neoliberisti. Secondo la Scuola di Francoforte, il capitalismo della metà del XX secolo mirava a distrarre e pacificare i cittadini-consumatori. Secondo questa visione, ciò che oggi chiamiamo “deficit di attenzione” era in realtà una riproduzione dello status quo. Tuttavia, il deficit di attenzione contemporaneo rappresenta una minaccia strutturale per lo stesso regime neoliberista che lo produce: la saturazione dell’informazione, infatti, danneggia le nostre capacità di produttori (lavoratori) e consumatori. La mindfulness – che mira a ripristinare l’equilibrio e l’attenzione dell’individuo – agisce direttamente su questo piano. È una delle ragioni per cui Žižek ha profeticamente sostenuto che il “buddhismo occidentale” è il perfetto completamento ideologico del capitalismo contemporaneo.

Anthony e Putz in Disruption affermano che la mindfulness è uno strumento potente e scientificamente riconosciuto per incrementare la propria consapevolezza. Un qualcosa di cruciale spesso sottovalutato per dirigenti di alto livello alle prese con le sfide della disruption. Sottolineano inoltre che trasformare solo la persona che sta al vertice di una struttura non basta. Troppo spesso si incontrano leader che si concentrano esclusivamente su questo. Ciò consente solo un’apparenza momentanea di trasformazione e, appena il leader se ne va, i cambiamenti se ne vanno con lui o lei.

Formare una generazione di lavoratori

La sfida in corso è quella di riuscire a reclutare e formare una generazione di lavoratori che, nello svolgimento delle loro mansioni, dovranno utilizzare l’Intelligenza Artificiale, la Robotica, l’informatica quantistica, l’ingegneria genetica, la stampa 3D, la Realtà Virtuale e via discorrendo. L’evoluzione tecnologica ha drasticamente ridotto la longevità delle competenze come mai in passato. Le aziende devono anticipare e coltivare le competenze fondamentali di cui i loro team necessiteranno domani.

Le aziende tendono a trascurare il fatto che la Quarta rivoluzione industriale si stia affermando proprio mentre altri due grandi cambiamenti stanno esacerbando la carenza di competenze. Innanzitutto i cambiamenti demografici. I millennial e la generazione Z sembrano avere aspirazioni professionali diverse rispetto ai padri e ai nonni. Molti di loro preferirebbero lavorare per una start up piuttosto che per un’impresa già affermata. Questi giovani lavoratori hanno aspettative molto alte nei confronti dei datori di lavoro, il che rende difficile per le aziende tradizionali attrarre i giovani  talenti di cui hanno bisogno. In secondo luogo, poiché oggi la tecnologia sta trasformando il mondo in cui lavoriamo, sta generando una dinamica diversa da quella delle precedenti rivoluzioni industriali. In passato, l’innovazione ha potenziato la precisione e la produttività dei lavoratori con abilità manuali, consentendo loro di svolgere compiti precedentemente riservati ad artigiani specializzati e ben pagati. Intelligenza Artificiale e Robot avranno l’effetto opposto: aumenteranno precisione e produttività dei lavoratori altamente qualificati, ma finiranno per rimpiazzare gli addetti con basse qualifiche.

È chiaro a tutti che le innovazioni tecnologiche abbiano assunto un ruolo centrale, che riguardano tutte le funzioni aziendali e che si susseguono sempre più velocemente. Meno evidente è come sia cambiata la loro stessa natura: le tecnologie più rilevanti per un’azienda sono sempre state quelle sviluppate internamente o sviluppate da partner industriali. Erano poche, rare, specifiche e tipicamente segrete. Questo tipo di innovazione continua a esistere e a essere importante, ma non è più l’unico. Bassi e Mattiello suggeriscono di pensare all’IA Generativa: si tratta di un’innovazione tecnologica sviluppata da altri, che arriva dall’esterno e, nonostante ciò, può trasformare tutti gli ambiti di un’organizzazione, da quelli creativi a quelli tecnici, dalla comunicazione alla logistica. Per cui è facilmente immaginabile che tutte le innovazioni tecnologiche potenzialmente più disruptive per un’azienda avranno due aspetti fondamentali in comune: si diffonderanno rapidamente e saranno facili da utilizzare, da tutti e per diverse applicazioni.

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