Attraverso puntualizzazioni, allusioni e osservazioni, le note a piè di pagine di una vita, quella di Armand V., con questa funambolica destrutturazione, Dag Solstad, riflette sulla creazione letteraria («il romanzo è qualcosa che è già stato scritto, e l’autore è soltanto colui che lo trova, e lo dissotterra faticosamente?») e anche sulla propria produzione.

È chiaro che avrei potuto entrare nel romanzo e scriverlo. Ci sarebbe voluto molto lavoro per estrarlo, ma alla fine sarebbe stato composto, com’era fin dall’inizio. Posso dire così? Come la mettiamo allora con il fatto che tutti i miei romanzi si sono rivelati diversi da come pensavo sarebbero stati quando li ho iniziati? […] più mi contraddico, più sono sicuro che non mi sto contraddicendo […] scrivere un romanzo è trovarlo, è rivelarlo.

Poi si diverte anche a tracciare un singolare affresco della storia norvegese degli ultimi decenni, via via meno solidale e più capitalista, più vicina al cono d’ombra statunitense, come sanno i giovani degli anni Sessanta e Settanta che affollavano i campus, come Armand V., studente universitario pacifista. È uno sguardo sugli angoli apparentemente marginali, ma spesso significativi, di un’esistenza. Tante piccole digressioni, tanti salti temporali, niente dialoghi, un occhio attentissimo alle trasformazioni sociali e politiche. Lo stesso protagonista, Armand V., diplomatico che incarna un punto di vista anti-americano, fa i conti – oltre che con la sconfitta degli ideali di una generazione – con un figlio che partecipa a una guerra a servizio degli Stati Uniti, eppure non si espone pubblicamente:

Non si rivoltò contro coloro che avevano scatenato la guerra da cui il figlio era tornato invalido. Se provava una rabbia profonda contro gli Stati Uniti non la espresse mai.