In “Colazione da Truman” Lawrence Grobel ha raccolto una serie di irriverenti interviste a Truman Capote, capace in poche battute di fare a pezzi geniali colleghi ma anche protagonisti dell’arte e dello spettacolo. Una lingua (e una penna) biforcuta che sarebbe costata cara all’autore di “Preghiere esaudite”…
Se la letteratura è pettegolezzo, le interviste che rilasciava sono la quintessenza della letteratura. Stiamo parlando di Truman Capote e di un libro che meritava di tornare in circolazione. A oltre quindici anni dalla prima edizione, Minimum Fax ha rilanciato in una nuova edizione, tradotta sempre da Lucio Carbonelli, Colazione da Truman. Incontri con Capote (287 pagine, 14 euro) di Lawrence Grobel, il Mozart degli intervistatori, copyright Joyce Carol Oates (fra l’altro attaccata pesantemente da Capote…). Un volume denso e divertente, che aiuta a scalfire il “mistero” attorno alla vita splendida e disperata di Truman Capote, che di tutto potrebbe essere accusato, ma non di essere disonesto o poco trasparente.
Capote contro tutti
È uno di quei libri che si può leggere senza iniziare per forza dalla prima pagina e finire con l’ultima. Per esempio bisognerebbe subito andare al capitolo 6. Ci sono contumelie assortite per tutti o quasi tutti, anche giganti inattaccabili. Solo in pochi si salvano dalla scure di Capote, da una lingua che non teme di dire tutto quello che attraversa i suoi pensieri e si trasforma in voce, scagliandosi per esempio, con nomi e cognomi, contro «la mafia letteraria ebraica». E non è tutto. Hemingway? «Una persona mediocre, un omosessuale non dichiarato». Faulkner? «Molto ambiguo e impulsivo». Pynchon? «Orrendo». Barthelme? «È lo scrittore più noioso e falso del mondo». Borges e Camus? «Scrittori di second’ordine». Updike? «Artificioso». Malamud? «Illeggibile». E così via, con tante altre “pagelle” spietate e giudizi sprezzanti, tranne che per i pochi scrittori amati, in certi casi venerati: Nabokov, Forster, Karen Blixen, Proust, Wilde.
Le conseguenze del pettegolezzo
Irriverente, dissacrante, narcisista, esibizionista, abituato a non fare sconti a nessuno, nemmeno a se stesso, e a non avere scrupoli. Truman Capote da New Orleans, padrone della scena dei Sessanta e dei Settanta, applica la stessa filosofia e sfacciataggine – con conseguenti show pirotecnici di parole – alla scena artistica, a quella teatrale, a quella cinematografica, a quella musicale (Bob Dylan e Mick Jagger nel mirino), al jet-set statunitense e internazionale (pronunciandosi anche su Jackie Kennedy Onassis e Marella Agnelli). I ritratti che vengono fuori dai dodici capitoli (le interviste risalgono alla prima metà degli anni Ottanta, poco prima della scomparsa di Capote) sono certamente anticonvenzionali, pieni anche di superstizioni e pregiudizi (spesso nei confronti delle donne). E a loro volta ritraggono fedelmente il burrone di autodistruzione e di emarginazione sociale in cui finì per cacciarsi lo stesso Truman Capote: un estratto di Preghiere esaudite (uscito poi postumo e incompleto), colmo di rivelazioni sull’alta società newyorchese, pubblicato sulla rivista Esquire gli costò rappresaglie… relazionali. Finì in un angolo, nel girone dei reietti, con fama di grande ex scrittore, un patrimonio dilapidato, solo alcol e droghe a fargli compagnia.
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