Theodor Kallifatides, vivere è possibile ma con le parole giuste

Ritorno alle origini per Theodor Kallifatides, che a 77 anni non riesce più a scrivere. Emigrato da giovane in Svezia, dove vive da decenni, rientra in patria e ne scrive, tornando alla lingua greca, in “Una vita, ancora”. Cerca un equilibrio che lo aiuti a risollevare il suo destino di autore, interrogandosi con ostinazione ma mai con commiserazione…

In un’intervista Thomas Bernhard ha affermato che «Un libro tradotto è come un cadavere». Una frase forte, che non andrebbe intesa alla lettera ma il cui scopo è invitare alla riflessione. Theodor Kallifatides è sicuramente meno provocatorio ma esprime un po’ lo stesso concetto:

Ogni lingua è unica. Non si può scrivere lo stesso libro in due lingue diverse. Si scrive un libro che somiglia a quello che si è già scritto.

E parla certo con cognizione di causa Kallifatides. Nato in Grecia, emigrato a ventisei anni in Svezia dove tuttora risiede, autore prolifico, sceneggiatore e per l’appunto traduttore. Ha scritto la maggior parte dei suoi libri in lingua svedese. Una vita, ancora (128 pagine, 16 euro), tradotto da Carmen Giorgetti Cima ed edito da Voland, è il primo testo che scrive in greco dopo cinquant’anni. Per bisogno, per gratitudine, per evadere o per tornare? Sicuramente perché era l’unica maniera possibile. Perché «Si può dire ciò che si deve dire in tutte le lingue del mondo» (cit) ma per alcune cose c’è un solo modo.

I luoghi dell’anima

Kallifatides scrive questa sorta di memoir tra passato e presente in un momento difficile della sua vita: a 77 anni non riesce più a scrivere, ha un blocco e si sente prossimo al pensionamento. Ma come arriva uno scrittore alla fine della sua carriera? Non c’è un’età prestabilita, non c’è un obbligo, un limite, qualcuno sopra di noi che ci dica “da oggi puoi essere libero”. Il percorso può essere tortuoso, interiore più che burocratico.

Potrebbe accadere all’improvviso, come successe a Simenon che dopo aver scritto circa quattrocento libri si accorse un giorno di non riuscire più a scrivere nemmeno una parola. O può essere una scelta ponderata, decidere deliberatamente che sia giunta l’ora di appendere la penna al chiodo.

Ma ero capace di smettere? Non ne ero sicuro. Non riuscire a scrivere era una cosa. Decidere di smettere di provarci un’altra.

Forse quando andiamo incontro ad un cambiamento e non siamo pronti ad adattarci ad esso rimettiamo in discussione tutta la nostra vita. Kallifatides cerca un equilibrio che lo aiuti a restare in piedi e a risollevare il suo destino di scrittore. La sua mente torna inevitabilmente nei luoghi dell’infanzia, in Grecia. I ricordi sono immuni al cambiamento, sono fissi in un tempo immobile. Ma devono scontrarsi con la realtà, labile e cangiante. Infatti quando lo scrittore decide di tornare in Grecia la sua memoria non coincide con quello che vi trova. Il senso di estraneità cresce, lo sforzo per restare ancorati a qualcosa aumenta.

Le parole a cui apparteniamo

Un libro onesto, già dall’incipit, diretto che non cerca scuse ma possibili soluzioni. Denso di quella malinconia mista a disorientamento che caratterizzano la necessità e l’inevitabilità di un cambiamento. È difficile rassegnarsi ad esso quando capiamo che può tradursi nella fine di un ciclo di vita.

Una meta-narrazione in cui assistiamo ai ricordi di piccoli dettagli felici dei giorni da scrittore, paragonati all’inevitabile vuotezza che sembra assumere la sua vita senza quei rituali.

Kallifatides si interroga, tenta di proseguire con ostinazione ma mai autocommiserandosi.

Si concede excursus temporali (tornando in Grecia con la memoria prima di approdarvi fisicamente) e considerazioni sulla democrazia, la giustizia e la libertà in cui spicca il suo retaggio filosofico.

Quel mondo nuovo interiore si rispecchia nel cambiamento esteriore di una società con cui fatica ad entrare in sintonia. Teme di non appartenere più alla sua patria natia e di non essere mai appartenuto veramente alla sua terra d’adozione.

Sarà necessaria un’inversione di rotta o meglio un ritorno alle origini per capire che una vita, ancora è possibile se si hanno le parole giuste per scriverla e raccontarla.

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