Helga Flatland, il tempo non lenisce le ferite ma divide

È una scrittura fluida, dalle sfumature uggiose e dalle note pungenti, quella di Helga Flatland in “Fino alla fine”, romanzo familiare, in cui una madre malata e i suoi figli ormai adulti perdono tempo illudendosi di poterlo sconfiggere…

Sono giorni che Anne cerca di mettersi in contatto con i suoi figli. Il telefono riproduce uno squillo che sembra vibrare a vuoto all’interno di stanze, appartamenti, automobili ovunque si trovino in quel momento i suoi figli e che in quella fattoria, ormai abbandonata, acquista una tonalità sinistra, tanto da sembrare ancora più forte. Anne vorrebbe comunicare loro ciò che i medici le hanno confermato da qualche giorno: lo spettro di una malattia ormai è diventato una realtà. Anche se l’esito prospettato dagli specialisti sembra lasciare speranze per una guarigione dopo un lungo percorso di cura, la sensazione che ha Anne è che il tempo si stia mettendo di traverso.

Accuse, dolori, silenzi

I protagonisti di questo romanzo hanno un vero problema con il tempo. Con quello che potremmo definire il tempo sospeso del passato, in cui risiedono le accuse, i dolori, i silenzi e le felicità mancate; c’è un tempo infinito, in particolar modo quello dell’infanzia, in cui tutto sembra procrastinabile, anche l’affetto; e poi c’è il tempo che resta, ed è sempre poco per fare i conti con ciò che si è stati e ciò che gli altri si aspettavano di avere. Il tempo, in questa storia, non è ciò che lenisce le ferite, ma ciò che divide questa famiglia perché il tempo è per sua natura inarrestabile ed esattamente come accade per un fiume in piena, trascina con sé tutto ciò che trova lungo il suo percorso, per accantonarlo tutto insieme in un angolo e lasciare che sia tu a ritrovare parti della tua storia da ricomporre, quando torna il sereno.

Le reazioni inaspettate

Così quando Anne riesce a mettersi in contatto con Sigrid, sua figlia che è medico, covava in cuor suo la recondita speranza che la notizia della malattia la spiazzasse, la commuovesse, creasse una breccia in quella stoica barriera che sua figlia si è costruita in tutti questi anni. Il ricongiungimento che Anne si aspetta avvenga con la sua famiglia è qualcosa che auspica ed è qualcosa che la spaventa. In realtà la reazione dei suoi figli, Sigrid e Magnus, è diametralmente opposta: Sigrid, in prima battuta, adotta un atteggiamento pragmatico, osserva verso la madre la stessa condotta che utilizzerebbe con i suoi pazienti: lasciare da parte i sentimenti, le emozioni, non farsi coinvolgere ma fare in modo che siano i dati scientifici a parlare. Si mette in contatto con il medico che la curerà, con lui discute della terapia e tiene d’occhio sua madre: prendere le medicine e seguire le prescrizioni del medico sono la priorità. Niente sembra scalfire Sigrid, che oltre alla malattia di Anne deve fare i conti con una faglia aperta in seno alla sua famiglia: il nuovo compagno, Aslak, si sente messo da parte; Mia, la figlia avuta dal precedente matrimonio, sembra preferire la compagnia del padre e della sua nuova fiamma; e il piccolo Viljar, che vorrebbe trascorrere più tempo con la nonna. Se Sigrid rimprovera a sua madre di non esserci stata, di aver dedicato tutto il suo tempo a suo marito Gustav, di essere stata una donna indipendente e determinata a seguire il proprio istinto, oggi Sigrid invece di guardarsi alle spalle, dovrebbe osservare quanto forse è finita per somigliare a sua madre, più di quanto avrebbe voluto.

E poi c’è il figlio maschio di Anne, Magnus, che affronta la malattia sommergendo sua madre di email, prima, e dossier colmi di cartelline e fogli stampati, dopo, contenenti notizie e saggi scientifici che pesca nelle sue continue ricerche sul web, per sottoporle le tesi di chi sembra stia lavorando per trovare una cura al suo male: la scienza sta facendo passi da gigante sembra essere il suo mantra, il suo rifiuto di accettare di vedere sua madre svanire giorno dopo giorno.

Tra Oslo e una fattoria

Nella fattoria in cui Anne si è trasferita anni prima con Gustav, vuota, senza animali e un orto, abbandonata al suo destino, la donna si intestardisce a seguire la sua routine quotidiana, un rito per scacciare i brutti pensieri forse, una nuotata nelle acque gelide lì vicino per iniziare la giornata. Intorno a lei si avvicendano tutti i personaggi di questo romanzo dediti a controllare le condizioni di salute di Anne, a fare in modo che non resti sola e abbia qualcuno a cui rivolgersi in caso di difficoltà: è una famiglia all’improvviso, precaria, silenziosa, smarrita, che cerca di venire a patti con tutto quel tempo che all’inizio abbiamo definito sospeso: i non detti, i segreti in una famiglia sono un peso incapace di dissolversi da solo e il confronto che Sigrid vorrebbe con sua madre e quello che Anne cerca più di tutto con se stessa, aleggia tra Oslo e la fattoria e rende tutti impreparati alla disfatta. Il romanzo di Helga Flatland, Fino alla fine (288 pagine, 18,50 euro), pubblicato da Fazi nella traduzione di Alessandro Storti, è un approfondito ritratto che vede in primo piano il significato di famiglia, quel nucleo che ci forma e che ci influenza, dal quale i protagonisti della sua storia cercano di fuggire per anni, senza chiedersi il vero perché, ma che “fino alla fine” li interroga su ciò che sono stati, su ciò che sono diventati. È una scrittura fluida, sostenuta e impetuosa, dalle sfumature uggiose e dalle note pungenti, dai sentimenti chiari e da una razionalità ostentata. Forse è proprio la scrittura a rendersi antidoto per i suoi protagonisti, dando loro, ancora una volta, il tempo necessario per tentare di rimediare a quella sensazione di aver perso tempo illudendosi di poterlo sconfiggere.

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