Rivela l’indicibile e manifesta l’invisibile la poesia di Jon Fosse, come emerge da “Ascolterò gli angeli arrivare”, con liriche composte nell’arco di un trentennio. Un’opera che coglie la vita nell’attimo in cui nasce e si manifesta, sboccia e fiorisce, muore e si spegne, accolta dall’Oltre, mistico e divino
Ogni volume pubblicato da Crocetti è una vera e propria delizia, un dono particolarmente gradito al palato dei suoi lettori. Ascolterò gli angeli arrivare (216 pagine, 15 euro) di Jon Fosse, nella traduzione e cura di Andrea Romanzi — che nel saggio introduttivo analizza la produzione letteraria e poetica dell’autore norvegese, dagli esordi al discorso di accettazione del Nobel, nel dicembre 2023 —, se possibile, è ancora di più: è un’esperienza mistica e metafisica, una finestra aperta sull’invisibile, che ci circonda ovunque, ogni giorno, in ogni esperienza terrena ed è popolato da chi abbiamo amato e non è più con noi, dagli angeli e dallo stesso Dio, compresenti al nostro fianco sulla Terra, e l’invisibile di ciò che è oltre l’esistenza terrena: il cielo e quell’altrove, popolato anch’esso da anime di defunti, angeli e dal divino, non-luogo verso cui tendiamo, perché inesorabilmente e inconsciamente attratti da esso.
Movimento, pausa, ripetizione
La scrittura per Fosse rivela l’indicibile: ciò che è e, al tempo stesso, non è, oltre la sfera del reale e sensibile, percepito attraverso i nostri sensi. Questa è anche la motivazione per la quale gli è stato assegnato il Nobel.
La scrittura è un’esperienza trascendentale, per Fosse. In essa, la parola è al tempo stesso movimento — quello del mare nei fiordi —, breve pausa — quella dell’onda che si adagia sulla battigia —, ripetizione — l’acqua marina che con ritmo incessante lambisce la terra, la bacia e vi soggiorna per poco, quindi rifluisce nel grembo marino, per poi tornare a lambire e baciare la terra, adagiandosi sulle sue membra. La scrittura di Fosse è costituita da suoni e silenzi, ritmo, brevi pause, cesure. E ciò è ancora più vero e concreto nella sua scrittura poetica, nelle strofe e nei versi che accompagnano, senza interruzione, la sua intera produzione letteraria: Ascolterò gli angeli arrivare raccoglie liriche composte e pubblicate nell’arco di anni compreso fra il 1986 e il 2016.
I pieni e i vuoti dell’esistenza
Jon Fosse manifesta l’invisibile, mentre dispone la parola nei versi, nelle strofe, sulle pagine, perché conosce i pieni e i vuoti, e gli spazi che si insinuano tra loro. Sono i pieni e i vuoti dell’esistenza, le sue gioie e i suoi lutti, i suoi canti e silenzi, i suoi amori e abbandoni. Sono i pieni e i vuoti del reale, le insenature dei fiordi della costa occidentale norvegese, la neve ora lieve ora spessa, le rimesse delle barche, la luce abbagliante, il freddo e il buio atre, le case abitate poi spopolate, perché qualcuno se n’è andato, gli oggetti vivificati dai gesti umani e poi abbandonati, come le case e i corpi, da chi non è più (qui).
È poesia che ristora la sua, in un dialogo costante fra luce e ombra, giorno e notte, dissoluzione e rinascita, in cui Dio esiste e si manifesta, perché è nelle cose, nelle persone, emozioni e passioni, e nel loro contrario: l’assenza, la morte, le ombre, i ricordi; in cui gli uomini sono al tempo stesso gioia e dolore, vergogna e splendore, amore e misfatto, perdizione e speranza. E gli angeli sono sempre al loro fianco — accanto —, come probabili sostegni e fonte di speranza, e forse salvezza.
La forza espressiva
Vita e morte, terra e mare, vento e neve, alture e voragini si susseguono, nei versi di Fosse, sotto un cielo onnipresente, uniforme e costante, quello che accompagna la vita, la morte e nell’Oltre.
La poesia di Jon Fosse è mistica e profetica e, in essa, l’io lirico, attraverso i sensi — vista e udito, soprattutto — percepisce, scopre e infine conosce, per sé stesso e per il resto del genere umano, la natura, il mondo e quell’invisibile, immanente e trascendente, che in modo improvviso e fugace gli appare e poi scompare.
La parola, che in poesia ancor più che in qualsiasi altra forma di scrittura, esprime tutta la propria fisicità, nei versi di Fosse possiede e restituisce tutta la propria forza espressiva, facendosi di volta in volta materica e corporea, quotidiana e ancestrale, evanescente, metafisica e mistica. I suoi versi e parole sono roccia e vento, acqua e terra, mare e fiordo, case e barche, corpi che si cercano stringono e amano, anime che si rincorrono e ricordano. Sono, al tempo stesso, l’infinitamente piccolo — in primo luogo, l’uomo — e l’infinitamente grande — Dio, l’infinito universo. E un fraseggio amoroso, un dialogo familiare — specie nelle prime raccolte — ininterrotto fra chi c’è (ancora) e chi è andato oltre, ma, come gli angeli, resta ancora qui sulla Terra, accanto a chi ha amato e, nel cui ricordo, quell’amore si perpetua.
Tra bagliori e fitte nebbie
Jon Fosse gioca con le opposizioni. È un universo di contrasti, soprattutto umani e terreni, il suo, di bagliori e fitte nebbie, che si compenetrano e alternano dandosi reciprocamente risalto ed evidenza. Ma anche gli angeli e il trascendente ora sono luminosi, ché colmi di luce, ora l’esatto contrario, perché neri e opachi, a volte anche dediti alle passioni più oscure.
Poesia di cielo e terra, paradiso e inferno, morte e vita, di suoni che si alternano a silenzi, di canzoni d’amore e di dolore, di piena fugace consapevolezza che, attraverso la parola e la scrittura, l’io umano — in particolare quello lirico — coglie la vita nell’attimo in cui nasce e si manifesta, sboccia e fiorisce, poi si ripiega su di sé, si fa fragile, infine, muore e si spegne, ma non finisce perché l’altro, l’Oltre, mistico e divino, la accoglie e, insieme all’amore di chi resta (in vita), la riporta e mantiene sulla Terra, ad affiancare la vita che in essa si ripete e manifesta.
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