In “Gioielli blu” di Katharina Winkler non si legge di pietre preziose, ma di gesti violenti impressi sulla pelle come debiti di violenza da parte dei mariti, seme di una condotta che cresce inestirpabile. Filiz è la protagonista di un racconto crudelmente vivido e al contempo poeticamente incisivo
I gioielli blu delle donne nate nella parte fortunata del mondo sono pietre preziose. Pegni d’amore, emblemi di benessere, ricordi pregiati. Anche per le donne come Filiz sono ricordi, ma cimeli di appartenenza ad un vile destino, promemoria di un gesto violento impresso sulla pelle.
I gioielli blu delle donne turche sono il marchio testimone della supremazia dell’uomo e il simbolo quanto mai evidente di un presente fisso, teso solo verso un futuro apparentemente immutabile.
Questo è il tuo destino, devi vivere così, anche se lui è un cane. Dobbiamo vivere così, non possiamo farci niente.
Un debito di violenza
La parvenza di un’infanzia, trascorsa ad occuparsi della casa, dell’orto e del bestiame, la speranza di un amore che auspica cambiamento e libertà. Una sposa bambina, una madre vincolata. Il miraggio di una vita diversa e la rassegnazione alla sua inattuabilità. Filiz accetta passivamente e con dignità un destino che prima di lei è toccato a tutte le donne del suo paese, e che pertanto le sembra l’unico possibile. Accetta i gioielli blu che il marito imprime sulla sua pelle come debiti di violenza.
Fino a che punto può spingersi la crudeltà, qual è il limite della sopportazione? Non possiamo fare a meno di chiedercelo pagina dopo pagina, con il fiato sospeso: la vita di Filiz si imporrà nelle nostre giornate.
L’urgenza delle parole
Affidando la narrazione a Filiz, Katharina Winkler in Gioielli blu (304 pagine, 20 euro), tradotto da Cristina Proto per Cencellada, dà forma ad un racconto crudelmente vivido e al contempo poeticamente incisivo.
Prende il lettore per mano e lo accompagna ad osservare. Anzi lo costringe. Voltarsi dall’altra parte sarà impossibile, perché la prosa dell’autrice è avvolgente e non lascia scampo. Sono pagine dai capitoli brevi, brevissimi, il tempo necessario per esporre l’urgenza dei fatti così come avvengono. Non c’è tempo per la commiserazione, al lettore il compito di elaborare e stigmatizzare un atteggiamento che pare perpetuarsi senza scampo. Il seme di una condotta che cresce inestirpabile.
La vita di Filiz più che scorrere, ruota nel cerchio di una ripetitività che sembra impossibile da spezzare.
Il tempo è sempre più debole, ogni giorno deve dare alla luce una nuova giornata. Ogni notte una nuova notte. E ogni sessanta minuti un’altra ora. E un secondo ogni secondo. Il tempo ormai è stanco.
La realtà dei fatti
Cosa rende un storia reale? La veridicità dei fatti narrati o l’impatto che essi producono sul lettore? Non troverete tra queste pagine quella tendenza spesso radicata a voler indorare anche la realtà più cruda allo scopo di renderla digeribile al lettore. Perché la storia di Filiz non è una storia, ma una testimonianza. È la vita di una donna così come l’ha vissuta, messa nera su bianco. Una cronaca schietta e precisa di come la violenza può essere accettata e data per scontato, se germoglia in un contesto in cui è normalizzata per cultura. Come se toccasse inevitabilmente in sorte dalla nascita. Una crudeltà inconfutabile che non può e non deve in alcun modo essere addolcita.
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